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Coltivatori diretti di felicità

di Carlo Pesso

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Recentemente si è ricominciato a parlare pubblicamente di felicità. Un paese poverissimo, piccolo e sconosciuto come il Bhutan ha sostituito la misura del prodotto interno lordo (Pil – soprannominato il “Pirla” dall’economista Giorgio Ruffolo) [1] con un indice che descrive la felicità interna lorda. Mentre ciò avviene, in Italia e in Europa il tema della felicità e, nello specifico, della felicità sul lavoro inizia a farsi largo tra temi tradizionalmente cari all’economia.

Cerca di affermare la propria legittimità proponendo un’alternativa all’idea di “benessere” che sia almeno alla pari dei concetti di produttività e maggiori consumi, cui di solito è associata la “crescita”. Prova di questa evoluzione sono le riflessioni [2], i documentari televisivi [3], e perfino le discipline che propongono la scoperta o riscoperta della felicità personale nell’impresa [4].

Tutto questo positivo trambusto, in un periodo che parrebbe generoso soprattutto di preoccupazioni individuali e collettive drammatiche (crisi economica, cambiamento climatico, incremento stellare del divario dei redditi, dislocazione delle opportunità di lavoro, corruzione dilagante), è dovuto a gruppi di persone che hanno l’ambizione di sperimentare e fare proposte affrontando tutte le preoccupazioni, piccole e grandi. Proprio questa capacità di ideare soluzioni considerando i problemi nella loro globalità nutre l’autorevolezza dell’esperienza sviluppata da Cauto e descritta più dettagliatamente nell’articolo di presentazione a questa esperienza.

Chiunque sia entrato in contatto con questa realtà rimane molto colpito dall’aspetto e dall’impegno delle persone che vi lavorano. Lavoratore dipendente o volontario, persona in difficoltà o in via di reinserimento sociale, fornitore o cliente: ognuno coltiva il “senso” di appartenere ed essere coinvolto in un’impresa “speciale”. Un’impresa che si impone di risolvere problemi a tutto tondo e al meglio delle proprie forze. E questo traspare soprattutto dai risultati economici e sociali. Oltre a soluzioni , fatti e numeri, la cooperativa coltiva, produce e distribuisce –possiamo esprimerlo ora in punta dei piedi – qualcosa che assomiglia molto ad una forma di felicità.

A questo “valore” prodotto, si aggiunge una interessante capacità progettuale e di innovazione. Da molti anni i decisori europei e nazionali ricercano nell’incisività delle soluzioni locali le ricette per porre rimedio ai problemi globali. Depositari di potenti strumenti di indirizzo e di intervento settoriali, tributari di accanite lotte di influenza – non ultimo il rinvio all’autunno 2015 del pacchetto sull’economia circolare adottato dalla Commissione europea nel 2014 – costoro ricercano nelle eccellenze territoriali gli esempi per rinnovare la tanta agognata “cassetta degli attrezzi”.

E nel frattempo, si è ben capito che per superare la soglia della sperimentazione locale ed essere utili all’insieme delle comunità nazionali europee, è necessario documentare e testimoniare le varie esperienze. Cauto si muove in questa direzione: proponendo soluzioni innovative, monitorandone i risultati, così contribuendo all’evoluzione di norme e strategie più adatte all’economia circolare. In questo, gli strumenti multimediali costituiscono un’enorme facilitazione. Anche su questo versante, come testimonia il nuovo sito della cooperativa, la continua evoluzione di Cauto è esemplare.

L’esperienza di Cauto costituisce un tassello dell’economia circolare che chiude il cerchio di consumo incontrollato di beni e materiali altrimenti sprecati (ri-utilizzo, riparazione, riciclo, ecc.) e riduce così gli impatti ambientali. Lo fa coinvolgendo persone in condizioni transitorie o permanenti di difficoltà fisica o psicologica a volte causati dai percorsi della vita (immigrazione, rotture famigliari, carcere, ecc.) e persone del tutto normali, creando reciproco riconoscimento, conoscenza e legami. Si avvera così l’obiettivo di “inclusività sociale”, propugnato a livello europeo nel quadro dalla Strategia di Lisbona 2000-2010 e, ad oggi, largamente disatteso.

Attraverso il recupero del valore della materia si realizza, prima di tutto, il recupero della dignità delle persone poste ai margini, la possibilità di lavorare – spesso con mansioni considerate umili – in un contesto che offre “senso”. Queste scelte – frutto di una precisa visione di Cauto circa il ruolo di una impresa sociale in una comunità – consentono di instillare e coltivare il seme di una felicità possibile per tutti. Note[1] Lo sviluppo dei limiti, Giorgio Ruffolo, Laterza, 1994[2] Come, ad esempio, Prosperità senza crescita, Tim Jackson, Edizioni Ambiente, 2011[3] “Le bonheur au travail”, trasmesso da Arte il 24 febbraio 2015 disponibile in francese su youtube: https://youtu.be/LgiOOIXagIk[4] Accademia della felicità, http://www.accademiafelicita.it/, Milano

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