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Dove ci porta il cambiamento demografico?

di Francesco Marcaletti

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La dinamica di invecchiamento della popolazione che ha investito buona parte dei paesi dell’emisfero occidentale del globo è descritta da tempo nei termini di cambiamento demografico. L’aumento del numero e della quota relativa di anziani (variamente definiti, prima considerando gli ultrasessantacinquenni, oggi sempre più guardando agli ultraottantenni) sul totale della popolazione rappresenta infatti una soltanto delle dimensioni che contraddistinguono i mutamenti in atto nella struttura demografica di molti paesi, tra i quali spicca il nostro.

Tale transizione origina fondamentalmente da due fenomeni. Il primo rappresenta l’esito di progressi che sfociano in condizioni inedite per il genere umano. Il secondo attiene a processi storici, economici e culturali che hanno profondamente influenzato il prendere forma dei sistemi sociali così come oggi li conosciamo.

Sul primo fronte, l’incremento della longevità favorito dall’abbattimento generalizzato dei tassi di mortalità a tutte le età – da quelli alla nascita in poi – conquistato grazie ai progressi compiuti dalle scienze mediche, ha prodotto aspettative di vita che non hanno precedenti nella storia umana. Per quanto scontata possa sembrare questa constatazione, gli esseri umani semplicemente vivono più a lungo, e dunque il loro corso di vita risulta più esteso, come mai prima d’ora.

Se questo primo fattore di per sé non segna particolari elementi di problematicità, riletto in chiave dinamica contribuisce tuttavia a tratteggiare quell’insieme di dimensioni che destano ormai da qualche tempo profonda preoccupazione circa i destini di un’ampia parte del globo. Il secondo elemento è dato infatti dal prendere forma storico di assetti sociali che hanno prima favorito un boom delle nascite a cui a fatto seguito, a poche generazioni di distanza, un crollo della natività stessa. In un paese come il nostro si è per esempio passati da un tasso di fertilità totale – all’apice del baby boom – pari a 2,70 figli in media per donna in età fertile nel 1964, a una quota – al picco negativo del baby burst – di 1,19 figli per donna in età fertile nel 1995, esattamente una generazione riproduttiva più tardi. Volendo sintetizzare questa seconda dimensione della transizione in atto, a livello strettamente demografico si può dunque osservare che si vive sì più a lungo, tuttavia in assenza di un adeguato ricambio generazionale. Infatti, nel nostro paese (ma non soltanto) le coorti di età più giovane si sono, con il procedere del tempo che separa la fine degli anni Sessanta dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, via via assottigliate; specularmente, nello stesso arco di tempo, le coorti di età più anziana sono andate ingrossandosi anche quale esito della longevità progressivamente incrementatasi.

Le implicazioni di tali transizioni si sono manifestate (e sempre più andranno a farlo) su numerosi fronti, rispetto ai quali da tre decenni almeno a questa parte forti sono stati i richiami operati da organismi internazionali e istituzioni sovranazionali circa i modi più adeguati attraverso i quali accompagnare i mutamenti in atto e in particolar modo prevenirne gli effetti più destabilizzanti.

Il primo elemento di problematicità – quello che fondamentalmente ha influenzato la logica del discorso in tema di invecchiamento demografico – riguarda la sostenibilità economica e finanziaria dei sistemi di protezione sociale e la competitività di quello economico-produttivo. I sistemi di protezione sociale – in primis quelli previdenziali – sono – già oggi, e sempre più lo saranno – messi alla prova dall’incremento del numero di persone beneficiarie trattamenti pensionistici, trasferimenti monetari che peraltro andranno a coprire periodi di vita più estesi. Gli attori economici sono invece sfidati sul lato dei modi attraverso i quali mantenere inalterati i livelli di produttività (e anzi incrementarli) potendo contare tuttavia su una forza lavoro che risulterà sempre più segnata da squilibri generazionali dovuti a inadeguati livelli di ricambio e che vedrà pertanto crescere inevitabilmente la propria età media, con tutte le conseguenze sul lato della competitività delle imprese che ciò determinerà.

Il secondo fattore di problematicità si esprime sul fronte della sostenibilità sociale dell’assistenza e cura degli anziani. La transizione, per le caratteristiche che ha assunto, andrà sempre più dando forma a un assetto tale per cui da un lato, stante la quota numericamente crescente di grandi anziani non autosufficienti, agli attori pubblici si porrà il problema di come assicurare adeguati livelli di assistenza socio-sanitaria, sostenendo il relativo lievitare della spesa; dall’altro lato, i tradizionali compiti di cura assicurati dai figli ai genitori nella fase finale di vita di questi ultimi andranno accompagnati da servizi acquistabili anche sul mercato privato, date le difficoltà dei primi di conciliare tale esigenza con le istanze di prolungata permanenza nelle forze di lavoro e di posticipazione del momento del pensionamento. Per dare un ordine di grandezza a questo problema, si consideri che in un paese come il nostro, a partire dalla metà del presente secolo, stante le proiezioni demografiche di medio periodo, il rapporto tra popolazione 55-74enne e popolazione ultra 75enne, nel complesso, conteggiando insieme maschi e femmine, sarà pari a circa 1,2.

Un ulteriore fronte da considerare è proprio quello strettamente relativo alle dinamiche in corso di consolidamento nei mercati del lavoro, dove già oggi si assiste a un combinarsi di effetti coorte e di effetti generazione che – a prescindere dalle difficoltà congiunturali – influenzano fortemente gli andamenti occupazionali. Nonostante la crisi, buona parte dei paesi europei ha assistito infatti a un incremento dei tassi di occupazione dei cosiddetti older workers (i 55-64enni) che si può spiegare soltanto alla luce di due fattori: l’ingresso in tale fascia di età delle prime coorti, numericamente molto consistenti, di nati nei periodi di baby boom, ovvero quelle coorti che vanno insieme a costituire una generazione socializzata a livello educativo e professionale in contesti culturali e istituzionali differenti da quelli che hanno segnato le generazioni che l’hanno preceduta, e in particolare caratterizzati livelli di scolarità più elevata e da una maggiore propensione – specie femminile – alla partecipazione al mercato del lavoro. Conseguenza di tutto ciò è che le forze di lavoro appartenenti a coorti di nati in anni precedenti il baby boom, meno scolarizzate e meno femminilizzate, sono progressivamente sostituite, nella fascia di età più elevata delle forze di lavoro stesse, da coorti costituite da insiemi di individui che hanno fatto il proprio ingresso nel mercato del lavoro più tardi – in conseguenza di una permanenza nei circuiti dell’istruzione e della formazione più prolungata – e a più elevato tasso di femminilizzazione. Il fatto che i mercati del lavoro siano – e a maggiore ragione saranno nel futuro – popolati da una quota crescente di ultra 55enni non va peraltro letto univocamente e automaticamente in chiave esclusiva di altre categorie di età, in particolare di quella più giovane. La transizione demografica in atto – alla luce di quanto considerato sino a questo momento – implica infatti l’intensificarsi degli squilibri generazionali nei mercati del lavoro stessi in direzione opposta. Già oggi, in un paese come l’Italia, per ogni 100 residenti tra i 55 e i 64 anni vi sono grossomodo 80 residenti di età compresa tra i 15 e i 24 anni, considerando nel calcolo di tale rapporto anche la componente immigrata della popolazione. Nel volgere dei prossimi due decenni tale quoziente scenderà a poco più di 60 giovani per ogni 100 adulti ricadenti nella fascia di età più elevata delle forze di lavoro, fatto che da solo giustificherebbe un cambiamento di paradigma nei modi di interpretare le dinamiche intergenerazionali nei mercati del lavoro e definire le opportune misure di politica del lavoro, nella direzione non soltanto dell’agevolare la transizione dei giovani verso l’occupazione, quanto del modo attraverso il quale assicurare un adeguato ricambio alle forze di lavoro in uscita verso il pensionamento.

All’interno di tale scenario, i rilevanti mutamenti intervenuti a livello sociale in conseguenza dei processi di globalizzazione, de-istituzionalizzazione e individualizzazione, hanno spinto con forza sempre maggiore a interpretare il fattore nuovo dell’accresciuta longevità alla luce di un paradigma che porta a sganciare i vissuti individuali dalla rigida organizzazione sociale dei tempi di vita consolidatasi nel contesto della società salariale (fortemente gendered e dominata da una netta tripartizione degli stadi: fase della preparazione, fase dell’impiego, fase della quiescenza) verso nuove forme in cui a imporsi è un intrecciarsi individualizzato di transizioni tra condizioni e stati di vita differenti.

In questa prospettiva, la transizione al pensionamento segna l’ingresso in una nuova fase (o stagione) di vita che può estendersi anche per diversi decenni e che costituisce un ulteriore fattore inedito nella storia dell’umanità. Mai si era vissuti tanto a lungo e mai prima d’ora lo si era fatto in una stagione della vita che sino a poco tempo fa costituiva il tempo del disengagement da ruoli attivi assunti all’interno dell’organizzazione sociale. Di qui la necessità di preparare tale transizione in un’ottica che sia ossequiosa non soltanto degli imperativi di attivazione che rappresentano la prospettiva mainstream dell’active ageing, ma soprattutto di una inedita progettualità, ovvero aprendo a una fase di vita all’interno della quale possano convivere armonicamente lavoro economicamente produttivo e socialmente riproduttivo, partecipazione, loisir.