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Giustizia, perdono, pace

di Luciano Eusebi

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Talvolta mi capita di sollecitare un neolaureato che vuol fare il giudice a essere un giudice buono. Lo faccio perché so che, assai probabilmente, mi opporrà il proposito di essere un giudice giusto. Così che potrò fargli notare come, in cuor suo, abbia teorizzato la separazione di principio tra la giustizia e il bene.

Ciò coglie un problema cardine della nostra cultura, che l’attraversa da millenni e ne rappresenta l’elemento di maggiore refrattarietà alla provocazione derivante, ove non la si legga in senso riduttivo, dal messaggio cristiano, in sintonia con il modo in cui l’intera Scrittura manifesta la giustizia salvifica (tsedaka) di Dio. Un problema il quale ha condizionato forse più di ogni altro le scelte personali e sociali, le regole giuridiche, i rapporti tra gli Stati, facendo da sfondo alla giustificazione stessa delle guerre.

La questione emerge oggi, implicitamente, quando ci si interroga su giustizia e perdono. Perdono e misericordia sono altra cosa dalla giustizia, come per lo più s’è sempre ritenuto, o forse è tempo di asserire che devono compenetrarla? Sono atteggiamenti nella sostanza supererogatori, nonostante i moniti evangelici, da riferire soltanto all’ambito individuale (privandoli di ogni rilievo nell’ambito pubblico), o sono necessari per costruire rapporti umani che non continuino a riproporre l’ingiustizia?

Il problema è che la giustizia, per essere davvero coerente a se stessa dinnanzi al male, deve saper dire, attraverso i contenuti dei gesti in cui s’esprime, ciò che è altro dal male. Ma il fatto è che la nostra cultura ha teorizzato la giustizia in un senso meramente formale, vale a dire come reciprocità dei comportamenti, secondo il modello, universalmente diffuso, della bilancia. Salvo costruire le risposte a ciò che s’è valutato negativo – che in base a quel modello saranno parimenti negative per i loro destinatari – utilizzando modalità analogiche (per esempio, una certa durata della detenzione in carcere come corrispettivo della gravità ascritta al reato commesso): in modo da sottrarre la giustizia a una troppo palese identificazione con dinamiche ritorsive o di vendetta.

Una simile visione della giustizia ha delle conseguenze evidenti, eppure ampiamente trascurate. Fa propria, in primo luogo, un’ottica contrattualistica, per cui lo stesso far del bene esige che qualcuno l’abbia meritato, avendo compiuto, a sua volta, del bene. Su questa via, la domanda di giustizia delle persone deprivate dei beni indispensabili per una vita dignitosa rischia di essere percepita come attinente all’ambito della carità, cioè a un ambito d’impegno tutto sommato discrezionale. Quanto più, paradossalmente, si rimarca la santità di chi aiuta i poveri, tanto meno si rende percepibile che tale aiuto è questione di giustizia.

Soprattutto, inoltre, quella visione finisce per operare – e la storia ne è testimone – come un moltiplicatore del male. Se è giusto rispondere al negativo col negativo si creeranno catene continue di ritorsioni, posto che è ben difficile discernere il male in sé dal male che si asserisca giustamente inflitto, e che comunque ben raramente chi ha subito del male lo reputerà un male giusto, così da rinunciare a reagire, giustamente, secondo il male.

Più a fondo, tuttavia, una volta concepita la giustizia in termini di reciprocità, risulterà estremamente facile reperire nell’altro qualcosa di negativo che funga da alibi per l’agire negativo nei suoi confronti. Nessuno, infatti, è esente dal negativo. Anzi, quel modello della giustizia faciliterà il ravvisare aspetti negativi del tutto autonomi da una qualche responsabilità personale, e pertanto riferiti a un giudizio sull’altro in quanto sia percepito utile, o disfunzionale, ai nostri fini.

La questione è stata sollevata con forza – ma non adeguatamente recepita nello stesso dibattito teologico-morale – dal papa Giovanni Paolo II attraverso il messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2002 (di poco successivo alla distruzione delle Twin Towers): messaggio significativamente titolato «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono». In esso viene proposto forse per la prima volta con assoluta nitidezza l’assunto secondo cui il perdono è chiamato a informare non soltanto l’atteggiamento dei singoli individui, ma anche la definizione delle regole giuridiche: «Nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una “politica del perdono” espressa in atteggiamenti sociali e in istituti giuridici nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano» (n. 8).

Non si tratta, ovviamente, di ignorare il male, ma di inaugurare percorsi di risposta al male che costituiscano pur sempre progetti di bene: una prospettiva, questa, ripresa dal medesimo Pontefice nell’ultimo dei suoi messaggi per la Giornata mondiale della pace, del 2005, ed efficacemente sintetizzata mediante la citazione di Rom 12, 21, che ne costituisce il titolo: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male».Il problema, del resto, ha risvolti di teologia fondamentale, poiché investe il fulcro stesso dell’annuncio cristiano, cioè la giustizia divina quale si manifesta pienamente in Gesù morto e risorto.

Si deve tener conto, infatti, di come la modalità con cui da millenni s’è intesa la giustizia, lungi dal lasciarsi mettere in crisi una volta diffusosi il cristianesimo, ha imbrigliato per molti aspetti l’espressione della fede cristiana in una logica mutuata dai tribunali terreni: facendo leva, soprattutto, sui passaggi della narrazione biblica essi pure segnati dall’incidenza culturale dell’ottica retributiva, ma trascurando il senso profondo, cui già si faceva cenno, della giustizia divina quale emerge fin dai racconti di Adamo e di Caino.

Così l’immagine di Dio è rimasta ispirata anche in molti credenti – più che al rivelarsi di Dio come amore misericordioso (realtà la quale, per lo più, viene inesorabilmente relativizzata) – alla figura del giudice che, in definitiva, premia e condanna. E la salvezza compiutasi in Gesù è stata ridotta, complice la teorizzazione di S. Anselmo, a un’operazione giuridicistica in cui la sofferenza di Cristo (malum passionis) compenserebbe il male insito nel peccato di Adamo, ristabilendo l’equilibrio di una bilancia cosmica posta, potremmo immaginare, tra la terra e il cielo. Per cui la salvezza dipenderebbe, in buona sostanza, dal male inflitto al Figlio di Dio e da lui subito, piuttosto che dall’amore portato fino all’accettazione della croce.Una prospettiva, questa, che oscura la percezione di come il male – il peccato – costituisca fallimento per se stesso, a prescindere da una pena. E di come dinnanzi al male la giustizia divina si manifesti quale offerta gratuita di un percorso inteso alla liberazione o, più precisamente, s’identifichi nella spendita di se medesimo da parte di Dio, per la salvezza di ogni essere umano, secondo ciò che è altro dal male, fino alla croce. Ma altresì di come proprio l’amore opposto al male, vale a dire la giustizia di Cristo giusto per gli ingiusti (1 Pt 3,18), si riveli in Dio – anche quando dal punto di vista umano sembri comportare una sconfitta – quale pienezza di vita, cioè risurrezione.

Così che, pure dinnanzi a ogni fallimento personale, è il darsi del Dio-amore che rende possibile intraprendere una strada nuova, di salvezza, rispetto al proprio stesso peccato.

Il tema è del tutto centrale. E forse una certa difficoltà nel trasmettere la fede è legata oggi, più che ai processi di secolarizzazione, a una diffusa incertezza nel saper indicare sinteticamente ciò che rappresenti il proprium dell’apporto cristiano alla domanda di senso ricorrente nella nostra società. Ci si potrebbe chiedere: come è pronto, oggi, il popolo dei credenti a rispondere, «con dolcezza e rispetto» «a chiunque domandi ragione della speranza» (1 Pt, 3,15) di cui esso è portatore?

Non a caso, il rapporto tra giustizia divina e perdono è stato ripreso dal papa Benedetto XVI, anche attraverso quella che appare una diversificazione significativa delle terminologie utilizzate in due distinti interventi.Nell’enciclica Deus caritas est, con riguardo all’Antica Alleanza, si afferma infatti: «L’amore appassionato di Dio per il suo popolo – per l’uomo – è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia». Una realtà questa, prosegue Benedetto XVI, nella quale «il cristiano vede già profilarsi velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l’uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore» (n. 10).

Nel discorso tenuto dal Pontefice il 18 dicembre 2011 ai detenuti del carcere di Rebibbia, invece, la stessa contrapposizione teorica di giustizia e amore (peraltro riferita in precedenza alla sola prospettiva veterotestamentaria) scompare. Se gli uomini distinguono tra giustizia e misericordia, osserva il Santo Padre, «per Dio non è così: in Lui giustizia e carità coincidono; non c’è un’azione giusta che non sia anche atto di misericordia e di perdono e, nello stesso tempo, non c’è un’azione misericordiosa che non sia perfettamente giusta».

Ben si comprende, pertanto, come nel messaggio per la Giornata della pace 2012 l’educazione dei giovani alla giustizia quale presupposto della pace venga ricollegata da Benedetto XVI al superamento di concezioni puramente sinallagmatiche o convenzionali di ciò che è giusto (il giusto deve ritenersi «originariamente determinato dall’identità profonda dell’essere umano»): in questo senso, «è la visione integrale dell’uomo che permette di non cadere in una visione contrattualistica della giustizia e di aprire anche per essa l’orizzonte della solidarietà e dell’amore».

Giustizia, potremmo allora dire, non è muoversi secondo criteri formali di reciprocità, bensì secondo progetti che corrispondano pur sempre alla dignità degli individui con cui entriamo in relazione.Il che implica abbandonare lo stesso convincimento correlato all’ottica retributiva – esso pure fatto ampiamente proprio dalla nostra cultura, come attesta, per esempio, l’impianto della dialettica hegeliana – secondo il quale i rapporti tra gli esseri umani, e tra le loro aggregazioni, non potrebbero che procedere attraverso un continuo scontro tra opposti: quasi che il bene, nei rapporti internazionali come in quelli affettivi, nella politica o nell’ambito dell’economia, sia in grado di scaturire da dinamiche le quali ripropongano, quantomeno in senso mimetico, la logica della guerra.

Quella di una giustizia senza bilancia non è, peraltro, una prospettiva sostenibile solo all’interno di un orizzonte religiosamente orientato. A ben vedere, piuttosto, costituisce la logica che viene proposta nelle stesse norme della Costituzione relative ai diritti inviolabili.Al primo comma dell’art. 3 la dignità sociale di ciascun individuo, cioè la sua capacità di far valere i diritti fondamentali rispetto a ogni altro essere umano, viene significativamente dichiarata autonoma da qualsiasi distinzione riconducibile alle sue «condizioni personali e sociali». Vale a dire, viene fatta dipendere non già dal giudizio su specifiche qualità o capacità che la sua vita, in una certa fase, sia in grado di esprimere, bensì dal solo fatto dell’esistenza in vita (il rispetto della quale, dunque, non è da riferirsi a mere motivazioni religiose, ma rappresenta il presidio del mutuo riconoscimento tra gli esseri umani come uguali: cioè del principio di uguaglianza e, in questo modo, della democrazia).

Anche secondo la Costituzione, pertanto, la giustizia non muove da un giudizio sull’altro che funga da presupposto per atteggiamenti corrispettivi rispetto a quel giudizio, bensì, essenzialmente, dal riconoscimento dell’altrui dignità, il quale obbliga a condotte che le siano conformi.Lo si evince ulteriormente dall’ultimo comma dell’art. 3, in cui si prende atto di come i diritti restino lettera morta ove qualcuno non assuma in via prioritaria i doveri che sono necessari per la loro sussistenza (così da «rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana»).

A monte di ogni diritto, anche dal punto di vista degli ordinamenti sociali, vi è, dunque, il riconoscimento dell’altro come un tu: riconoscimento il quale esige forme comportamentali autonome dalla logica citata del corrispettivo o, in altre parole, segnate dal senso del dovere, che rimane ultimamente improntato alla gratuità.

La nozione di nemico appare in questo senso, se ci è concesso il paradosso, incostituzionale. Del resto, eliminare dall’orizzonte della nostra premura (in senso reale o metaforico) l’altro che ci fa problema priva ciascuno di noi dell’opportunità che la vita sa offrire di esprimere quanto maggiormente corrisponde a un’autentica realizzazione umana: il che non è dato dalla dilatazione illusoria del nostro io a discapito dell’altro, inteso come un limite, ma dalla capacità di accoglienza.Ne consegue che l’impegno in favore della pace, sia per ragioni umane, sia, quanto al credente, per ragioni di coerenza religiosa, esige una profonda revisione del nostro approccio culturale alla giustizia.

Luciano Eusebi