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Integrazione-interazione narrativa: l’esperienza di Alba

di Redazione

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Da diversi anni la città di Alba, tramite un network partecipato che coinvolge le istituzioni locali (in particolare, il Servizio Stranieri del Comune) e la società civile (vari attori del privato sociale, come associazioni e gruppi), realizza dei momenti di incontro e di festa interculturale in seguito a percorsi di formazione (nelle scuole e nelle associazioni) orientati a creare opportunità di incontro, di conoscenza e dialogo, coinvolgendo migranti e non-migranti in una integrazione interattiva, in un apprendimento esperienziale attorno ad aspetti e tematiche comuni nell’ottica della convivenza ‘agita’ e della valorizzazione dei migranti come risorsa.

Ne parliamo con Emilio De Vitto, coordinatore del Servizio Stranieri del Comune di Alba e operatore Cooperativa Sociale Orso di Torino (capofila di questi progetti), e con Daniela Panero, psicopedagogista e coordinatrice dei percorsi “Radici” e “Distacchi”.

Domanda: Potreste ricostruire la cornice e i contenuti principali del vostro progetto “Radici” e “Distacchi” nonché le motivazioni che vi hanno spinto ad intraprendere questo percorso?

Emilio: Per capire come siamo arrivati a questo tipo di percorso, è importante risalire ad alcune caratteristiche del Servizio Stranieri del Comune di Alba, città dove avviene operativamente la realizzazione di questo percorso. Questo “servizio” istituzionale – che non coincide con uno “sportello” per stranieri – è nato in tempi molto più tranquilli rispetto all’immigrazione, ossia nel 1993, in un momento in cui ad Alba, come anche in Italia, il fenomeno migratorio cominciava ad affacciarsi. E già agli inizi era pensato come strettamente integrato dentro altri servizi esistenti, quindi in una sorta di sinergia su vari fronti e aspetti legati all’esperienza migratoria (dalla ricerca di lavoro alla richiesta di formazione sul territorio, al riconoscimento dei titoli di studio, ecc.). Oggi, il Servizio è molto impegnato sul fronte del rilascio e/o rinnovo dei permessi di soggiorno nonché delle domande di cittadinanza. In vista di supportare l’integrazione. E, sul territorio, è attento a essere un elemento di raccolta, cioè a fare rete sia con altre istituzioni, in particolare le scuole, sia con associazioni, con le realtà Caritas e con altre realtà che comunque si occupano dei migranti.

Questo ha caratterizzato fin dagli inizi il Servizio stranieri: il tentativo di dialogare sempre col mondo dell’associazionismo, da un lato, e con la realtà delle scuole dall’altro, grazie poi anche ai fondi regionali stanziati sull’immigrazione.

I percorsi che abbiamo fatto nelle scuole venivano realizzati insieme anche ad altre realtà territoriali (del privato sociale) e terminavano, ogni anno, con un incontro pubblico in piazza. Il nostro tentativo è stato quello di restituire alla città e far conoscere.Le risorse (economiche), messe a disposizione dall’ente locale (e dalla regione), da un paio di anni non sono più disponibili, per cui si procede con molte difficoltà.Al tempo stesso, da parte nostra abbiamo cominciato a tentare qualcosa di nuovo rispetto al lavoro svolto specificamente nelle scuole. Ecco il progetto ‘Radici’ e ‘Distacchi’.

Ma è da quella esperienza nelle scuole che è nato il progetto, con l’intento di lavorare per una integrazione decisamente partecipativa. L’idea da cui siamo partiti è stata la seguente: proviamo a ragionare e riflettere su alcune tematiche che possono essere di comune interesse – tra persone autoctone e migranti, adulti e giovani, persone con alle spalle percorsi migratori diversi e/o altre con scarsa conoscenza dei fenomeni migratori, donne e uomini, migranti partiti con un progetto migratorio definito e altri semplicemente fuggiti forzatamente senza aver chiaro dove andare.

Abbiamo quindi provato a mettere anzitutto insieme associazioni che già lavoravano sul territorio con i migranti, molte delle quali con un approccio tendenzialmente assistenziale; le abbiamo convocate e abbiamo cominciato a ragionare insieme sulle tematiche che avrebbero potuto essere discusse. Ed è inizialmente emerso il tema delle “radici”.

Queste associazioni (una decina inizialmente) sono state incaricate da noi di coinvolgere, ciascuna, un gruppo misto di lavoro (migranti e italiani) e di creare occasioni/luoghi/tempi di socialità e di incontro in cui ciascuna persona, con il sussidio di una traccia flessibile di lavoro (contenente 5-6 domande stimolo da interpretare con grande libertà), potesse condividere le proprie idee, riflessioni, esperienze attorno a quel tema.

Domanda: Come si è snodato il progetto e la narrazione condivisa?

Daniela: Questo tipo di percorso ha innescato un processo riflessivo che non era automatico, soprattutto per gli operatori delle varie associazioni, generalmente più orientati ad interventi concreti, maggiormente rivolti al “fare”. Sono state anzitutto valorizzate la loro capacità di riflettere ed elaborare un pensiero legato all’esperienza.I migranti coinvolti, per parte loro, hanno mostrato grande interesse e disponibilità a raccontarsi. Suscitando anche negli italiani che partecipavano sia la curiosità di conoscere di più cosa c’è alle spalle della loro esperienza migratoria sia di scavare nei propri vissuti, portando alla luce aspetti magari mai messi a tema, sopiti, considerati irrilevanti, talvolta traumatici eppure appartenenti alla loro storia.

Abbiamo nuovamente costruito una traccia per la narrazione, organizzato i gruppi, ed è ripartito il percorso l’anno successivo. Hanno lavorato, raccolto – come il primo anno – per iscritto le loro narrazioni, prodotto quindi dei materiali, e alla fine dell’anno sociale, a maggio, abbiamo ascoltato e riletto tutti insieme quanto vissuto ed emerso. E, come al termine del primo, è stato organizzato poi un evento cittadino, una festa all’interno di un teatro di Alba, per restituire quanto fatto attraverso la presa della parola, alcuni laboratori creativi, la proiezione di film, i momenti musicali attorno al tema discusso lungo l’anno.

Dopo il percorso dedicato alle “Radici”, i ragazzi delle scuole superiori, in particolare, hanno presentato un pezzo teatrale fatto da loro (anche le scuole infatti avevano lavorato su quel tema). Il secondo anno – con il tema “Distacchi” – è stata la volta dei migranti dei Centri di Permanenza Temporanea (CPT), i quali hanno espresso in forma teatrale le loro riflessioni attorno al tema dei “Distacchi”, predisponendo anche un video. Si è poi aggiunto un musicista straniero che si è offerto di suonare per la serata. Sia i migranti che CPT che questo musicista si sono proposti spontaneamente, e questo ci è piaciuto: una forma di auto-protagonismo interessante. Inoltre, la serata, alla quale hanno partecipato molte famiglie con bambini, è stata pensata come un seminario, in cui a prendere la parola non fossero gli studiosi del fenomeno migratorio, ma i protagonisti sul campo – migranti e autoctoni – dei percorsi narrativi, con il pubblico composto sia dai membri dei vari gruppi sia dalle persone legate alle varie associazioni sia, infine, dei cittadini interessati (anche se, su quest’ultimo fronte, ci accorgiamo che occorre trovare formule che coinvolgano di più la città e i suoi abitanti).

Domanda: Quali sono stati i punti di forza del percorso?

Daniela: La cosa interessante, ciò che fa la differenza rispetto ad altri percorsi è il fatto che non si è parlato solo di immigrazione, ma con i migranti. Circa un centinaio di persone hanno preso parte ai due percorsi, ma con una presenza più significativa di migranti.E poi, altro aspetto importante, il fatto che si sia spostato l’accento dall’integrazione, intesa in senso tradizionale (loro, i migranti, devono inserirsi, integrarsi, fare dei passi verso di noi, in un’ottica che ragiona sempre attorno al “loro-noi”), all’interazione: cioè, in altre parole, si è messa in atto, sul campo, una integrazione che avviene nell’interazione.

Nella narrazione interagita è emerso che i migranti hanno parlato delle loro radici, del loro significato di questo termine, della loro importanza nella vita, ecc. E gli italiani hanno riflettuto ugualmente su questo termine scavando nel loro vissuto, riscoprendo e narrando a se stessi il significato di queste radici, del loro passato, della loro storia. Ma non in senso regressivo, bensì in un confronto aperto con altri, diversi, aventi altre radici, eppure “radici” con la medesima importanza.

In quest’ottica – di integrazione come interazione – ci siamo trovati semplicemente a offrire un luogo e uno spazio per mettere insieme gente che già sta insieme, che già condivide un territorio e un tempo, e abbiamo voluto soltanto riflettere insieme su questo vissuto, su ciò che già accade e che potrebbe sfuggirci.

E la cosa più interessante è che tutti i partecipanti-conduttori hanno evidenziato il piacere di raccontarsi, anche gli italiani. Questo era l’obbiettivo che volevamo: cioè, noi non volevamo avvenisse un ascolto di racconti pietosi degli sfortunati di turno. Il nostro desiderio era che divenisse una esperienza significativa di gruppo, un guardarsi intorno, guardarsi negli occhi e scoprire un po’ tutti le radici per aprire la propria storia all’oggi, alla condivisione con altri con i quali costruire insieme al convivenza. Ma senza scadere in una esternazione simile a uno sfogo che non aiuta nessuno, anzi, magari crea delle vittime e rischia di produrre forme di buonismo camuffato. Per noi era cruciale che emergesse un clima comunicativo profondo in cui tutti sono alla pari. E ciascuno può essere valorizzato.Il discorso avrebbe potuto diventare pericoloso (pensiamo al tema dei “distacchi”, al dolore di lasciare, agli affetti che si interrompono, alle insicurezze che si vivono ecc.). Per questo, attraverso un metodo pragmatico (altro punto di forza), abbiamo cercato di andare dentro alle cose, toccare ricordi, emozioni, aspettative senza forzature: le tracce degli incontri sono state pensate in maniera soft, in modo che ciascuno scegliesse quale ritmo e quale profondità dare al proprio racconto; inoltre abbiamo realizzato, per ogni percorso, non più di tre incontri per sviscerare il tema, in modo che non avvenissero sbrodolamenti inutili.

Gli incontri erano da considerarsi come inizi per interazioni che poi avrebbero potuto continuare, svilupparsi, rafforzarsi al di fuori di questi momenti.Nelle loro narrazioni e nell’ascolto reciproco è emerso l’italiano che alla fine diceva: “Eh, sì, però il mio bisnonno era emigrato in Argentina, quindi io stesso sono migrante come te, anche noi italiani abbiamo radici migranti….”. E il migrante: “Io sono appena arrivato ad Alba, arrivo dal Senegal, ho questa storia, questi desideri e mi fa piacere ritrovare punti in comune con altri…”. Potrebbe sembrare banale. Ma in questa esperienza si inserisce un movimento che, secondo me, è importante e prezioso: non si tratta di guardare a persone che si trovano in una condizione di inferiorità e che devono essere solo aiutate, ma di provare ad interagire con loro, in più scoprendo di avere sguardi e vissuti comuni. E, ancora, non si tratta di fare discorsi sui migranti e sulle migrazioni, ma di parlare con i migranti. Ma tutto ciò ha bisogno ancora di un ulteriore passo, che dalle loro narrazioni è emerso: il riconoscimento “di essere un po’ tutti, anche noi italiani, migranti…”.

Tutti si sono ritrovati protagonisti, nella condizione di partecipare e costruire insieme qualcosa che riguarda la convivenza, un territorio, l’idea di futuro a partire dalle esperienze passate, dai vissuti anche molto personali, dal riconoscimento di una radice e di una storia.

Si è anche cercato di superare quell’ approccio superficiale al migrante in cui, abbandonando la posizione assistenzialista, lo inquadra dentro una affascinante quanto banale chiave esotica: il migrante ci porta sapori nuovi, ritmi allegri, rappresenta una novità nel torpore della nostra quotidianità. Cosa che rischia di appiattire l’intercultura sullo slogan: “che bello, mangiamo insieme tutti il cous cous!”.

Abbiamo visto l’importanza, nel processo di integrazione, di uscire dagli stereotipi. Emilio:La mia impressione è che questo piccolo percorso sia stato in realtà una rivoluzione, in particolare rispetto all’approccio tenuto da molte realtà associative.

Certamente, i gruppi che lavoravano insieme hanno sperimentato una intensità alta di scambio, di interazione. Non dobbiamo nascondere che, intensificandosi l’ascolto e lo scambio, sono emersi molti aspetti profondi dei vissuti ma anche molti problemi concreti della vita quotidiana che ciascuno si trova ad affrontare, che vanno dalla ricerca di un lavoro al riconoscimento del titolo di studio (conseguito in un altro paese). E il punto è che si è cercato di aprire qualcosa, nel senso di dire: “non ci sei lì tu che mostri un bisogno, una attesa, e qui io che posso/devo soddisfare ciò. Proviamoci insieme!”. Non so se riesco a rendere l’idea: io ho partecipato e conosco molte Consulte, Tavoli, Servizi/Sportelli, delegati degli enti locali ecc. per i Migranti. Ma ciò che mi pare manchi è il considerare anche il migrante come un cittadino che possa esprimere un suo parere, un suo consiglio, una sua preoccupazione sulle questioni della vita quotidiana e della convivenza. Cercando soluzioni insieme. Offrendo magari opportunità che non si pensavano. Altrimenti si rischia sempre di creare cittadini di serie A e cittadini di serie B. Qualcuno dà, qualcuno solo può ricevere. Poi è anche vero che la partecipazione dei cittadini migranti va sollecitata, accompagnata, alimentata perché non è automatica, per tanti motivi, ma questo vale per tante altre cose e per tanti altri cittadini. La cittadinanza attiva va costruita e non può limitarsi al voto.In tal senso, la collaborazione tra diverse soggettività collettive, a cominciare dalle istituzioni per arrivare al privato sociale, può offrire un contributo a un lavoro che potremmo definire come lavoro di comunità: che vuol dire, di costruzione di una comunità ma anche, al contempo, di costruzione della convivenza attraverso la partecipazione della comunità, delle risorse di comunità presenti, da riconoscere, valorizzare, far emergere.

Domanda: Cosa si è generato?

Daniela: Il lavoro fatto, come associazione e con altri, ha contribuito a creare tessuto sociale plurale, denso e aperto, o a riconnettere un tessuto (quello locale) che magari si era infragilito, cominciando con il guardare l’altro con occhi diversi, senza ingabbiarlo in una categoria sociale: ciò innesca nuove relazioni. E da lì poi accadono delle cose: per esempio, i partecipanti ai gruppi dei due percorsi si sono conosciuti di più, sono passati anzitutto dal guardarsi come erogatori di servizi o utenti (anche perché, in qualche caso, migranti e non-migranti si incontravano proprio nei centri di aiuto in due posizioni antitetiche) al vedersi come persone, con uno spessore e una storia, e anche come possibili interlocutori, colleghi, amici che arrivano a scambiarsi i bambini da curare, si aiutano nel caso di un ricovero ospedaliero, si vanno a trovare a casa, si consultano, ecc.

Sono molte le cose che si generano, noi non le conosciamo nemmeno. Ma è bene che sia così, perché non si può (e non vogliamo) avere il controllo di ciò che si genera nel dare valore alla presenza degli altri: interazioni nuove, relazioni, scambi, forme di reciprocità impensate.In sintesi, direi che c’è una bilateralità in quel processo di costruzione del tessuto sociale, per cui sono veri tutti e due i movimenti: da un lato, occorre un tessuto già esistente per poter avviare forme di socialità e prossimità concrete; e se c’è il tessuto si riesce a innestare un lavoro come quello fatto da noi negli anni. Dall’altro lato, è anche vero che questo lavoro contribuisce a creare un tessuto che, a sua volta, diventa l’ambiente per legami interpersonali.

Tuttavia, a mio avviso ci vuol sempre qualcuno che tenga in piedi la rete relazionale, la alimenti, la tenga in uno stato dinamico capace di tenere insieme continuità e novità, identità e alterità, riconoscimento di una tradizione e apertura innovativa. In tal senso, il nostro si pone come un lavoro che intende stimolare, alimentare tutto ciò, perché è impensabile che questo tessuto così composto, così intrecciato, così variegato e plurale da solo si autoriproduca! Qui stiamo parlando di gente molto diversa. E qualche timore c’è nell’insieme del lavoro. Ci sono senza dubbio questioni molto delicate che entrano dentro le interazioni, come per esempio la questione della donna, l’educazione (dei figli e in generale delle giovani generazioni) con tutto il peso legato alla trasmissione di valori e priorità. Domanda: come pensate di continuare?Daniela:Ci stiamo interrogando. Per non ripetere. Ma, al contempo, per avanzare nel processo di integrazione-interazione nella convivenza. Magari replicando anche altrove un esperimento di questo tipo.Stiamo pensando di ritornare dentro la scuola e portare lì quella metodologia e quei contenuti sperimentati in questi ultimi due anni con i giovani e gli adulti, nei percorsi “Radici” e “Distacchi”, coinvolgendo i bambini, i ragazzi e i loro genitori. E’ una sfida non da poco, dal momento che i significati dati alle cose e alle esperienze rischiano di essere completamenti diversi tra le generazioni e, ovviamente, tra i mondi culturali diversi.

Dal punto di vista dei temi trattabili così come dell’interesse da parte delle persone nonché delle metodologie già sperimentate ci sarebbe materiale sufficiente per continuare con percorsi simili a quelli degli ultimi due anni. Ma il nostro interrogativo è un po’, appunto, se mantenere questo ritmo di lavoro, via via con tematiche nuove offerte come stimolo annuale che poi genera un mucchio di cose sul campo, oppure se immaginare qualcosa di diverso.

Ci piacerebbe che in futuro, se il percorso continuerà, anziché organizzare il seminario finale in un teatro, cioè in un luogo chiuso, fosse in una piazza per poter coinvolgendo fin da subito la gente e favorire chi, magari di passaggio, si potrebbe affacciare e cominciare a conoscere. Sarebbe bello realizzare, per esempio, dei laboratori nelle vie di Alba, in modo che la gente interagisca più attivamente seppur iniziando in modo passivo, perché magari passa da quella strada per caso. La modalità delle feste finali già ha previsto un alto livello di coinvolgimento, ma soprattutto di chi già veniva e, ovviamente, dei partecipanti ai progetti lungo l’anno. Tuttavia rimane ancora un po’ fuori la città, la gente che vive nella città.

Siamo pronti ad allargare ancora ulteriormente in modo che i temi trattati escano definitivamente dai circuiti nei quali potrebbero sempre rischiare di essere ricacciati, ossia i circuiti della marginalità sociale, del bisogno, del problema. E per evitare, al contempo, che si inneschino, inconsapevolmente, processi di ghettizzazione dei migranti: non vorremmo vedere il formarsi (e magari contribuire a ciò) dei ghetti di immigrati come accaduto altrove (per es. Torino) dove essi hanno formato il gruppo/la parrocchia degli ecuadoriani, quella dei filippini, ecc. o, se pensiamo alla storia delle migrazioni interne in Italia, la parrocchia dei campani che festeggiano la festa dell’Irpinia o dei siciliani che fanno la processione alla Madonna addolorata di Siracusa.

Certo, tutto ciò ha a che fare, per riprendere il tema da noi sviscerato, con le “radici”, ma si tratta di valorizzare facendo evolvere, sennò non solo si rischia di rimanere impigliati nella retorica dei “diritti” (“abbiamo diritto alla processione del tal santo, abbiamo diritto a fare le nostre preghiere secondo una certa religione, ecc.”) che fa esplodere forme di individualismo collettivo ma ci si allontana lungamente da ogni percorso di intercultura davvero sensato rischiando di anteporre un generico richiamo all’apertura mentre le idee rimangono sostanzialmente chiuse.E’ interessante il termine latino che indica l’ospitalità – hostis – rimandi, contemporaneamente, allo straniero e al nemico. Questo dà a pensare: il migrante è un nemico o un ospite? Abbiamo a disposizione solo la paura su cui basare la nostra convivenza? Oppure è possibile diversamente? Direi né nemici né ospiti. Si tratta, ancora una volta, di superare stereotipi e pregiudizi: dietro ad ogni rumeno non c’è un ladro, ad ogni albanese uno stupratore; e, sull’altro versante: dietro ad ogni italiano non c’è uno sfruttatore, un imbroglione.Si tratta di lavorare affinchè non vi sia qualcuno che è ospite e qualcuno che ospita: il nostro piccolo tentativo che definirei ‘artigianale’, tenta di considerare tutti come cittadini, con delle domande, delle esperienze, delle storie, delle ferite, delle attese che non sono le mie, ma le loro e che vanno ascoltate, fatte emergere. Forse sono delle risorse.

Questo può generare cambiamento, e un po’ lo ha generato, come già dicevamo richiamando qualche esempio concreto di interazione tra le persone così come il nascere della forma reticolare di interazione a vari livelli.

C’è un dare e un ricevere reciproco. Questo tipo di movimento, se messo in atto, può consentire di affrontare diversamente i problemi. Riscoprendo che, su molte cose, c’è una eguaglianza da riconoscere a fronte di esperienze che la vita porta con sé.

Con tutto questo patrimonio, che vorremmo consegnare in eredità a chi viene dopo, si aprono per noi nuove sfide, in un tempo in cui è un problema alimentare le reti che si fanno nascere, in cui ci si confronta con istituzioni prive di visioni e con un associazionismo stanco

.Ma il passo per continuare – per quanto apparentemente piccolo -, se costante e se segnato dalla fiducia, dalla valorizzazione dell’altro, può dare uno slancio nuovo.

Redazione