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“Ora siamo uguali”. Di carcere, lavoro e dignità

di Luciano Violante

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Docente e politico italiano. È stato presidente della Commissione parlamentare antimafia e della Camera dei deputati. È presidente dell’associazione “italiadecide” Sono entrato per la prima volta nel carcere Due Palazzi di Padova nell’ottobre 2011. Mi hanno accolto con particolare cortesia il Direttore, Nicola Boscoletto, anima e cervello della Cooperativa Giotto, ed altri amici.

Mi hanno spiegato la loro concezione del lavoro in carcere. Non lavoretti qualsiasi, niente scopini, niente servizi interni, d’infima qualità, subalterni alle peggiori abitudini carcerarie. Un lavoro invece che richiede professionalità, che dia dignità e che formi ad un’attività produttiva quando si uscirà dal carcere. La recidiva – mi assicurano – è minima per quelli che in carcere hanno fatto lavori seri e professionalizzanti; mentre purtroppo è preoccupante per tutti gli altri. Ho controllato dopo e le informazioni erano esatte. Entriamo nei laboratori. I detenuti hanno una tuta o un camice blu.

Alcuni costruiscono biciclette da corsa di grande pregio. Altri, piccoli gioielli e cinturini da orologio. Silenzio, professionalità, cortesia, rigore mi sembrano i segni dominanti.

Poi passiamo nel reparto dei dolci e dei panettoni. Tutti hanno un cappello bianco e una tuta bianca. Il clima qui mi sembra essere più disteso, meno preoccupato. Il profumo dei dolci appena sfornati è intenso. Mi spiegano come si fanno i panettoni.

Mi dicono con orgoglio che hanno ordini da molte parti d’Italia e dall’estero. In effetti il panettone e i dolci sono buonissimi, come ho avuto modo di appurare personalmente qualche giorno dopo. Andiamo a colazione. Siamo a tavola insieme, visitatori, direttore, esponenti della Cooperativa Giotto, un gruppo di detenuti lavoratori. Hanno cucinato i detenuti. Si mangia insieme; si scherza sul tifo per le squadre di calcio. Dopo pranzo ci spostiamo tutti in una grande sala.

Ci aspettano un centinaio di altri detenuti. Io dico le mie opinioni sul carcere (da giovane ho fatto volontariato nel carcere di Bari; poi ho fatto il magistrato); molti intervengono brevemente chiedendo in sostanza che queste esperienze lavorative possano espandersi quanto più è possibile per coinvolgere un numero sempre maggiore di detenuti. Si sentono in qualche modo privilegiati; vorrebbero che il lavoro fosse la norma non il privilegio.

Mettono a confronto la giornata in cella, senza far nulla, per anni e questo lavoro di qualità. Gli interventi sono ordinati. Penso ai corridoi puliti, all’atteggiamento complessivo di tutti. Mi viene da pensare a un vecchio insegnamento dei tempi del mio volontariato: “Se non rispettiamo i diritti fondamentali dei detenuti, per quale motivo loro dovrebbero rispettare i nostri, quando escono?” Qui, grazie alla Giotto e a tutto il personale del carcere, i diritti sono rispettati. Naturalmente si tratta di piccole cifre rispetto all’universo penitenziario.

Ma l’obiettivo non può essere liquidare queste esperienze perché investono solo una piccola percentuale di detenuti. L’obiettivo, al contrario, dev’essere quello di estendere queste possibilità al più alto numero di detenuti. Carcere e civiltà sembrano termini inconciliabili. Ma non è così. La modernità deve consistere nel renderli conciliabili. Un carcere civile accresce l’autorevolezza dello Stato e la sicurezza dei cittadini. E fa risparmiare, perché meno recidive vogliono dire meno arresti, meno processi, meno carcere.

Rifletto mentre gli interventi si succedono. Sono vite che hanno incrociato altre vite: da quell’incrocio a volte è nato il male, che li ha portati qui dentro; a volte è nato il bene, incontrando la Giotto. Alla fine ci salutiamo, con affetto, come se fossimo amici da tempo. Forse lo siamo diventati. Mi si avvicina un uomo sui quarant’anni, in carcere le età sono indefinibili; ha il viso segnato da lunghe e profonde cicatrici. Sorride e mi parla con accento sardo, fortissimo. Si infila la mano nella tasca posteriore dei jeans e tira fuori un foglio piegato in quattro. Lo stende sul tavolo, me lo fa guardare e poi dice: “Vede io di qui forse non uscirò più. Ma questo è il mio 730. Io lavoro e pago le tasse. Questa è la mia dignità. Fuori non avevo dignità. La società non me la riconosceva. Qui lo Stato me l’ha data. E io sono grato allo Stato perché adesso sono un uomo come Lei e come gli altri che siete venuti. Ora, mi scusi, siamo uguali perché abbiamo tutti una dignità”.

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