Farm Cultural Park  Vai alla Storia

Piccoli costruttori di pezzi di mondo (migliore)

di Ciccio Mannino

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Se vuoi dare una interpretazione possibile alla parola “visionario/a”, ti potrebbe bastare andare sul sito farm-culturalpark.com e, nella sezione “Press”, scaricare la cartella compressa “Foto prima dei restauri”.

Siamo a Favara, provincia di Agrigento, cittadina con 33.558 abitanti che fino a dieci anni fa era conosciuta per il castello Chiaramonte e, suo malgrado, per fatti di nera e di abusivismo. Il fondo Favara lo tocca nel gennaio 2010, quando – come in una delle scene di apertura del film “Le mani sulla città” – una palazzina fatiscente crolla trascinando con sé le vite di due piccole abitanti. Non lontano dal luogo della tragedia e praticamente nello stesso periodo, il giovane notaio Andrea Bartoli e la moglie, l’avvocato e project manager Florinda Saieva, stanno per avviare una operazione di segno diametralmente opposto alle cause del “disastro annunciato”. E sì, perché in un’area semi abbandonata del centro di Favara, Florinda e Andrea sono in procinto di dare vita a Farm Cultural Park, quello che avrebbero poi definito un “Centro Culturale di nuova generazione”.

E torniamo alle immagini scaricate dal loro sito: basta aprire la cartella e scorrere le fotografie dello stato dei luoghi di allora, da loro chiamati “i Sette Cortili”. Non siamo davanti ad edifici storici, cosiddetti di pregio; non siamo ad Ortigia (Siracusa) o a San Berillo (Catania), dove anche il degrado (sebbene in via di recupero) s’affianca alla città antica, al suo palinsesto lungo, profondo e leggibile, e dove il degrado può evocare un certo fascino esotico, secondo alcuni gusti.

No, siamo proprio davanti al brutto, ma quello recente, quello che repelle la quasi totalità della gente: il brutto fatto di strutture precarie, scrostate, emblemi di povertà, con il tufo che si polverizza, impolverando uno dei simboli del brutto contemporaneo, l’alluminio anodizzato dorato, tanto in voga fino a qualche anno fa e assoluto protagonista dei prospetti e delle facciate delle città siciliane. Siamo in un archetipo della città siciliana, il macigno nella scarpa degli urbanisti, dei sociologi, degli amministratori.

Cosa ci vedono Andrea e Florinda in questi Sette Cortili, in questo spazio urbano che è una ferita sociale e umana? Loro, visionari appunto, ci vedono una risorsa. Ci vedono il fondo del barile, quello che se lo raggiungi, poi più in giù non puoi andare, e devi per forza risalire.

E risalendo, con quel fondo negli occhi e nel naso, tutto quello che fai sembra di segno positivo, anche solo se te ne discosti da quel fondo di barile. Invece Florinda e Andrea non si sono accontentati solo di ripristinare il sito, salvandolo dal degrado: questa sarebbe stata una “semplice” ristrutturazione edilizia. Piuttosto i due si guardano intorno, ma molto intorno: guardano a cosa succede nel mondo, guardano l’Europa, guardano l’Italia. E pensano che cogliere l’occasione di un centro urbano degradato e trasformarlo con risorse proprie in un centro culturale aperto e accessibile può essere un atto rivoluzionario: può essere un atto di amore verso i propri e gli altrui figli, consegnando loro “un piccolo pezzo di mondo migliore, magari migliore di quello che abbiamo ereditato noi”.

Perché ad Andrea, Florinda e a tutti quelli che mano a mano li affiancano nella loro visione, non interessa tanto il prodotto (una galleria, un museo, una ristrutturazione), quanto piuttosto il processo. A loro interessa che la loro visione sia sempre più condivisa; che artisti, architetti, artigiani, webmaster, social media strategist, gente comune, residenti e forestieri, arrivino un giorno a credere che iniettando arte e cultura nei centri degradati, facendolo a lento rilascio condiviso, poco a poco e tutti insieme, possa cambiare la nostra percezione delle città, e il nostro modo di utilizzarle e viverle.

Da giugno 2010 questo gruppo di visionari non ha cancellato il brutto, magari con una mano pesante di vernice di “nuovo” che qualcuno domani riterrà il brutto recente. No. Queste donne e questi uomini hanno portato l’arte e il design e poi, con adeguati megafoni planetari, hanno gridato al mondo intero, invitando tutti a visitare Farm. Se vogliamo, il brutto è ancora lì, incastonato tra murales totali, street art e orti urbani, contestualizzato tra cessi motivazionali e bookshop, reinterpretato tra baretti e cucine open, decostruito tra panche e piscine: con il brutto ci puoi anche convivere, se l’arte ti permette di riflettere sulle sue cause. Una kasba aperta, ecco cos’è oggi Farm, che ha al centro il processo di costruzione di comunità. Comunità al plurale, mi raccomando, perché le comunità sono tante: gli artisti residenti, quelli volanti, i volontari, i passanti, i residenti storici, i forestieri, i turisti, i fan della pagina Facebook, i sostenitori a distanza, i bambini, gli amici e i meno-amici.

Nel frattempo Farm cresce, per dimensione e per risultati. Aumentano i sostenitori e i frequentatori; aumentano gli spazi strappati al degrado e consegnati all’arte e alla fruibilità; aumentano i riconoscimenti e i premi (Premio “Cultura di Gestione” di Federculture; Biennale di Venezia 2012; etc.).

Aumentano le attività che ne giovano indirettamente, come B&B, ristoranti, tour organizzati. Cambia l’atteggiamento dei giovani favaresi, in estate attratti storicamente dalla marina di San Leone e ora sempre più interessati dalle mille attività culturali di Farm. La socialità, che usa l’arte come pretesto e non solo come totem, diventa protagonista in una cittadina che ne era stata esclusa. Blog e stampa nazionale e internazionale non fanno che raccontare con entusiasmo l’esperienza di Farm, come il blog britannico Purple Travel e il The Guardian. Arriva la gente, gente che si entusiasma (solo nell’estate 2014 ben 19.500 visitatori), che convivia con i residenti (Zia Maria, Zia Rosa, Zia Antonia e Vito), che riparte e che a volte resta (e magari compra casa). C’è da lavorare, e partono nuove professioni e nuovi professionisti. Si innesca un processo che più che indotto è induzione: un processo attivo, coinvolgente, dinamico, in cui i soggetti stimolati sono coscienti di cosa li stia stimolando e ne condividono le finalità. Gli artisti sono tanti, milioni di milioni (tra gli altri Richardson, Hakan, Uwe Jaentsch): arrivano, discutono, immaginano, producono e lasciano dopo avere risieduto. Ospiti e donatori. Nasce addirittura Farmidable, una prima Cooperativa di Comunità che sostiene Farm.

Sono passati cinque anni e le visioni con i loro visionari sono ancora lì, anche forti dell’esperienza maturata nel frattempo, con tutti i suoi chiaro-scuri legati alle comprensibili difficoltà di portare l’arte e la socialità laddove il brutto regna, quasi come un’arma di controllo sociale (cit. Gian Antonio Stella): osservano il futuro con i piedi ben piantati sul suolo dei Sette Cortili, e dai roof garden sui tetti sbirciano gli orizzonti. E progettano nuove sfide: il recupero di Palazzo Giglia, con la prospettiva di spazi per eventi, agricoltura urbana, coworking e un ostello; un educational space; ma su tutte, il Children Museum Farm, il “luogo del futuro”. Florinda e Andrea hanno avviato una biennale raccolta fondi immaginando un grande museo dei bambini, un logo di crescita, apprendimento ed educazione, aperto e amichevole, in cui l’arte svolga il suo compito principale, ovvero quello di stimolare, provocare, tentare di educare, coinvolgere, attivare.

E di raccontare a cittadini attivi, che avranno poi loro il compito di costruire società.Mentre a Catania con Officine Culturali tentiamo di rendere il patrimonio culturale pubblico un luogo di partecipazione e crescita per la comunità, o a Palermo L’Ecomuseo “Mare Memoria Viva” costruisce una memoria collettiva del litorale palermitano come spazio di relazioni (e si potrebbe continuare con tanti altri esempi siciliani), l’eco del tam tam dei diversi progetti aiuta a percepire le difficoltà, le paure, le scommesse, gli investimenti gli uni degli altri, e conforta il sentire che si può crescere restando umani.

Con il grande progetto del Children Museum Andrea, Florinda e le comunità che li sostengono ci salutano da quello che è diventato uno degli ombelichi del mondo, rilanciando sul futuro dei propri e degli altrui figli. Che dire, se non ringraziarli?

Francesco Mannino è Presidente di Officine Culturali, Catania
www.officineculturali.net
www.monasterodeibenedettini.it