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Quando impresa e famiglia crescono insieme

di Guido Corbetta

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La rilevanza delle imprese familiari

In questo contesto, l’attività svolta sistematicamente da alcuni anni dall’Osservatorio AUB – AIdAF, Unicredit, Bocconi e Camera di Commercio di Milano – fornisce un quadro completo ed articolato sulla realtà e sulle caratteristiche delle medie e grandi imprese familiari in Italia. La popolazione di aziende italiane monitorata dall’Osservatorio AUB si compone alla fine del 2011 di 7.320 aziende con un fatturato superiore ai 50 milioni di euro, e di queste 4.249 risultano essere aziende a controllo familiare (pari al 58%).[3]

Sebbene si tratti di un dato in linea con le precedenti rilevazioni dell’Osservatorio,[4] in un quadro di complessiva stabilità nel peso dei diversi assetti proprietari, emerge come sia avvenuto un processo di selezione indotto dalla crisi finanziaria. In particolare, nel 2009 il numero di aziende a controllo familiare si era ridotto a 3.893 unità, per poi crescere nuovamente nel 2010 e nel 2011 (complessivamente di 356 unità). Il processo di selezione – in parte ancora in atto – è stato così forte che, confrontando la popolazione iniziale (al 2007) e quella finale (al 2011) dell’Osservatorio, soltanto due terzi circa delle oltre 4.000 aziende familiari sono rimaste invariate. Le imprese familiari, volano dell’economia italiana I dati confermano come le aziende familiari rappresentino un volano importante per la nostra economia: le aziende familiari dell’Osservatorio impiegano circa 3,2 milioni di dipendenti, pari al 31% circa dei dipendenti impiegati da tutte le società di capitali italiane.[5]

Le rilevazioni dell’Osservatorio mostrano anche come le imprese familiari abbiano conseguito risultati complessivamente superiori alle altre nell’arco dell’ultimo decennio. In particolare, concentrando l’attenzione sulle imprese familiari di medie e grandi dimensioni monitorate dall’Osservatorio,[6] emergono almeno due ordini di considerazioni.In primo luogo, le imprese a controllo familiare censite dall’Osservatorio AUB hanno mostrato tassi di crescita costantemente superiori alle altri classi di imprese[7] nell’arco del decennio considerato, facendo registrare (dal 2001 al 2011) un tasso di crescita cumulata pari al 125%, contro il 93% in media delle altre classi di imprese. Questa dinamica di crescita appare supportata anche da una redditività sostenuta, che ha visto le imprese familiari generare nell’arco dell’intero decennio circa 1-1,5 punti in più (sia in termini di ROI che di ROE) rispetto alle altre realtà considerate. Inoltre, pur registrando una minore capacità di ripagare il debito, in parte dovuta ad una strutturale maggiore esposizione bancaria, gli imprenditori italiani e le loro famiglie hanno anche mostrato una capacità di preservare la solidità patrimoniale, contenendo il rapporto di indebitamento a livelli complessivamente più bassi rispetto alle altre imprese (con un rapporto attivo/patrimonio netto pari a 5,8 nel 2011, contro 7,8 delle altre classi).

Orientamento al lungo termine, coinvolgimento affettivo e “cultura della identificazione”… Il quadro che emerge da queste evidenze empiriche, per certi versi molto lusinghiero, fornisce una serie di considerazioni che ben si coniugano con alcune delle riflessioni sviluppate dalla letteratura di family business. Una prima considerazione è legata al “capitale paziente” della famiglia che, come molti studi in letteratura dimostrano, è più incline a privilegiare obiettivi e ritorni di lungo termine rispetto a quelli di breve.

Si tratta di una caratteristica che comporta il continuo e costante accumulo ed accrescimento di risorse e capitali, necessari per sostenere la crescita, la stabilità ed il raggiungimento di un posizionamento competitivo duraturo. Questo orientamento deriva in primo luogo dall’intenzione dei familiari “anziani”, in molti casi i fondatori dell’impresa consci dell’unicità della loro “vis imprenditiva”, di tramandare un’attività imprenditoriale competitiva e patrimonialmente solida ai propri eredi.L’orientamento al lungo termine è garantito anche dal forte coinvolgimento affettivo di proprietari, dirigenti ed anche dei dipendenti, che tenderà a ridurre i potenziali rischi di comportamenti opportunistici e/o di estrazione di benefici privati da parte dei singoli. Inoltre, il forte coinvolgimento di tutti coloro che lavorano all’interno dell’azienda si traduce spesso in un elevato grado di coesione e senso di appartenenza, che determina una effettiva condivisione non solo degli obiettivi aziendali, ma anche della cultura stessa della famiglia imprenditoriale. In questo modo è più facile che si generi un patrimonio di risorse “uniche” e “difficilmente imitabili”, con riferimento sia al capitale relazionale – derivante dai legami tra gli attori chiave – sia soprattutto al capitale umano, che esprime il complesso di conoscenze, competenze e capacità degli individui all’interno delle organizzazioni in cui operano.

La “cultura della identificazione” nelle imprese familiari determina conseguenze positive anche in termini di minore ricambio (a tutti i livelli), favorendo obiettivi di stabilità. In tal senso, la continuità della leadership, sia nella proprietà che in generale alla guida dell’impresa, rappresenta un’importante garanzia di “resilienza” tanto di fronte a periodi congiunturali negativi (come i cicli economici), quanto di fronte a difficoltà interne nel rapporto famiglia-impresa. In altri termini, la sovrapposizione tra i ruoli proprietari e di vertice, se da un lato genera qualche ambiguità, dall’altro rappresenta anche la migliore garanzia di solidarietà e comunione di intenti tra i familiari nei confronti dell’impresa in periodi di difficoltà. … limiti o risorse? L’insieme di queste caratteristiche rende possibile un modello decisionale basato su priorità in parte differenti rispetto ad altre realtà con assetti proprietari più “impersonali”. Di conseguenza, esiste una convinzione crescente e diffusa che nelle imprese di tipo familiare le scelte strategiche non siano guidate unicamente da obiettivi di carattere economico-finanziario, ma siano pervase da considerazioni di carattere “emotivo” o emozionale. In altri termini, l’identificazione dell’impresa con la famiglia fa sì che le finalità di fondo della famiglia vengano in qualche modo trasferite all’impresa stessa, ponendo in primo piano obiettivi non strettamente economici quali il mantenimento della coesione tra i componenti familiari, il radicamento territoriale, l’importanza data ai valori, la reputazione della famiglia e le relazioni con i collaboratori.

D’altro canto, però, la forte identificazione della famiglia nell’impresa può rappresentare anche un potenziale limite, rischiando di fare emergere alcuni “rischi” collegati alla natura familiare dell’impresa.

In primis, la tendenza ad anteporre la gestione degli equilibri familiari agli obiettivi dell’impresa fa sì che – anche in periodi di notevole turbolenza – si possa continuare a perpetuare un certo “immobilismo” nei vertici aziendali delle imprese familiari. Secondo i dati dell’Osservatorio AUB, infatti, mantenendo costante l’attuale ritmo delle successioni al vertice, nel 2015 oltre un quarto delle imprese familiari di dimensioni medie e grandi del nostro Paese sarà guidato da leader ultrasettantenni. Inoltre, sempre le analisi dell’Osservatorio AUB evidenziano come una maggiore accelerazione nel ricambio al vertice abbia interessato soltanto le aziende con difficoltà economiche. Tale fenomeno è indice di un processo poco programmato e questa difficoltà nel “preparare per tempo” la successione al vertice sembra affliggere in misura superiore le aziende di prima generazione. Peraltro, alla lentezza del ricambio al vertice si accompagna anche una certa tendenza a conservare la leadership aziendale nelle mani della famiglia imprenditoriale, come accade in ben l’80% dei casi monitorati dall’Osservatorio AUB. Per quanto questo non voglia in alcun modo rappresentare un giudizio di valore, è altrettanto evidente come tale tendenza riduca considerevolmente la possibilità di ingresso di manager non familiari in azienda, con la loro maggiore capacità di gestire il business con maggiore “freddezza”, e dunque senza il coinvolgimento emotivo inevitabile per un azionista familiare, e con una maggiore capacità di gestire situazioni di stress e di conflitto.

Queste considerazioni testimoniano quanto sia delicato il tema del ricambio al vertice, soprattutto per le aziende che si accingono a farlo per la prima volta. Il forte legame – quando non la vera e propria sovrapposizione – tra famiglia e impresa, infatti, induce spesso a percepire il ricambio generazionale come un momento traumatico e di rottura con il passato, da posticipare quanto più possibile. Tale problematica è molto avvertita nel nostro Paese, sia per la rilevanza che le aziende familiari assumono nel tessuto economico e sociale, sia per l’elevato tasso di mortalità che si registra nel passaggio da una generazione alla successiva: si stima che meno del dieci per certo delle aziende familiari sopravviva fino alla terza generazione.[8] La famiglia proprietaria a servizio dell’impresa

Patti di famiglia e Holding familiare: come preparare il passaggio generazionale In terzo luogo, senza alcun dubbio una famiglia che sappia trasmettere valori positivi come il rispetto dell’azienda, la ricerca dell’unità, la professionalità, la dedizione, l’umiltà, ha maggiori probabilità di affrontare con successo un passaggio generazionale. Ma credere che sia sufficiente la condivisione di alcuni valori è un errore non raro nei processi di successione. I valori, infatti, non sono sufficienti per scegliere tra soluzioni alternative, in particolare quando il passaggio generazionale si complica per la presenza di più eredi.

Occorre pertanto che la famiglia proprietaria si impegni per tempo nella messa a punto di regole condivise che consentano di procedere durante le varie fasi del processo e nella definizione di organi che abbiano l’autorità necessaria per decidere su eventuali questioni aperte. Non poche famiglie hanno sottoscritto dei “patti di famiglia”, il cui valore non sta tanto nell’opponibilità legale quanto nell’impegno morale rispetto al quale i sottoscrittori si danno reciproca assicurazione. Anche la creazione di una holding familiare è uno strumento che permettere di evitare che eventuali conflitti tra gli eredi possano portare alla deriva l’azienda di famiglia. La creazione di una struttura al di sopra della società operativa permette, infatti, di separare interessi divergenti, in tutto o in parte, dei familiari, alcuni dei quali potrebbero essere interessati alla gestione dell’azienda e altri soltanto al valore della propria partecipazione. Grazie alla holding si crea una forza che spinge i proprietari a cercare un punto di mediazione per trasmettere volontà unitarie alle società controllate, limitando la possibilità di uno stallo decisionale nelle decisioni di business. Infine, quando si analizzano le storie di molte imprese familiari che sono riuscite a superare uno o più passaggi generazionali è sempre possibile rintracciare la presenza di uno o più “attori terzi” rispetto alla famiglia proprietaria. Uno dei contributi portati dall’attore terzo è quello di colmare una carenza di conoscenza dell’imprenditore o di coloro che devono prendere decisioni sul passaggio generazionale.

Gli attori terzi, poi, favoriscono anche la riduzione dell’area delle emozioni, tipicamente abbastanza ampia nel caso delle imprese familiari, e l’ampliamento dell’area delle valutazioni tecnico-economiche. In altri termini, il contributo degli attori terzi è quello di ridurre al minimo le condizioni di non obiettività manifestate da tutti gli attori familiari in gioco. Alcuni ingredienti per una trasmissione di successo Un senso equilibrato della proprietà, la “cultura” del merito, la corretta educazione dei giovani, nonché la definizione (per tempo) di regole e strutture, sono i quattro elementi di validità generale che possono essere utili per diversi tipi di imprese familiari. Tuttavia, anche quando si siano affermate tutte le condizioni per favorire la “presa di comando” da parte della nuova generazione, persiste un ultimo ma fondamentale aspetto che è quello del passaggio “finale” del potere tra genitori e figli. In questa fase, il rapporto genitori-figli è caratterizzato da emozioni molto intense: per i genitori, cedere il “potere” può rappresentare la fine di una vita attiva ed il segno della vecchiaia, mentre i figli stanno ottenendo ciò che speravano da molto tempo.

Come conseguenza, molti genitori tendono a dilazionare questo passaggio; molti figli, invece, vorrebbero accadesse il più presto possibile. Guardando ad innumerevoli casi di successo, è possibile trarre alcuni insegnamenti su come attraversare questa fase senza incertezze: Dalla prospettiva “per obiettivi” a quella “di processo” Il segreto di molti passaggi generazionali di successo risiede infine nell’atteggiamento con cui le cose vengono fatte. In altre parole, è necessario affrontare le differenti fasi secondo una prospettiva “di processo” piuttosto che con una rigida visione “per obiettivi”. Nel primo caso, basandosi sulle informazioni disponibili nel presente, viene formulata una visione dello stato futuro. Prendendo le mosse da questa visione, si formulano le fasi iniziali del processo; una volta che queste sono state compiute, si valutano le esperienze originatesi e la visione viene adattata alla luce del nuovo stato della conoscenza. E’ quindi possibile decidere i passi successivi, e così via. La prospettiva “di processo” è basata sulla convinzione che non sia ragionevole definire ogni fase dall’inizio, specialmente in un processo, come la successione, in cui le libertà personali delle persone coinvolte e le loro reciproche interazioni sono di vitale importanza. In questi casi, non vi sono soluzioni “perfette”, né “universali”: esistono unicamente soluzioni valide che emergono da un processo come le più convincenti e praticabili, soprattutto in riferimento alle specifiche persone coinvolte nel processo.In sintesi, dall’esperienza maturata emerge la consapevolezza che solo un presidio efficace di queste problematiche, nonché la diffusione di una “coscienza imprenditoriale” orientata al merito, all’equilibrio, e al rispetto degli ambiti di azione della famiglia rispetto all’impresa possano favorire un ricambio al vertice che responsabilizzi pienamente (e presto) le nuove generazioni, il cui ingresso in azienda può costituire uno degli stimoli principali per “vincere” la resistenza al cambiamento, soprattutto in questi anni di crisi. E un cauto ottimismo è d’obbligo in questa fase per poter guardare oltre questa difficile crisi economica.

Guido Corbetta

Department of Management & Technology andAIdAF-Alberto Falck Chair of Strategic Management in Family Business

Bocconi Universityguido.corbetta@unibocconi.it

Alessandro Minichilli

Department of Management & Technology andAIdAF-Alberto Falck Chair of Strategic Management in Family Business

Bocconi Universityalessandro.minichilli@unibocconi.it

Fabio Quarato

Department of Management & Technology andAIdAF-Alberto Falck Chair of Strategic Management in Family Business

Bocconi Universityfabio.quarato@unibocconi.it

[1] Lo “S&P500” è l’indice azionario delle prime 500 società quotate sul mercato americano con la capitalizzazione più alta, mentre “Fortune 1000” è il nome di una classifica stilata dalla rivista economica Fortune, che elenca le 1.000 più grandi imprese societarie statunitensi, classificate solo sulla base del fatturato.

[2] In merito a questo aspetto occorre osservare come l’azionista di maggioranza – ivi incluse le imprese quotate – detenga in media più del 50% delle quote di capitale, mentre la seconda quota azionaria si ferma ad appena l’8-10%. Peraltro, il capitale delle imprese è usualmente detenuto da persone fisiche, e non tanto da istituzioni finanziarie e soprattutto bancarie, le quali agiscono piuttosto quali finanziatori a titolo di prestito (Markarian, Pozza e Prencipe, 2008).

[3] Sono considerate familiari le società controllate da una o due famiglie almeno al 50% (se non quotate) e almeno al 25% (se quotate), o da una entità giuridica a sua volta riconducibile ad una delle due situazioni sopra descritte.

[4] Le aziende a controllo familiari erano pari al 57,4% nel 2010, al 57,1% nel 2009, al 55,1% nel 2008 e al 55,5% nel 2007.

[5] Fonte: elaborazione Osservatorio AUB su base Aida.

[6] Al fine di evitare duplicazioni nei dati, sono state eliminate le aziende controllate nel caso di gruppi monobusiness e le società capogruppo (spesso holding finanziarie) nel caso di gruppi multibusiness.

[7] Si tratta di coalizioni, filiali di multinazionali, imprese a controllo statale, società cooperative ed imprese controllate da un fondo di private equity.

[8] Le Breton-Miller, I., Miller, D., & Steier, L. (2004) Toward an integrative model of effective FOB succession. Entrepreneurship Theory & Practice, 28(4).