Berto Salotti  Vai alla Storia

Tappezzeria e storytelling: perché l’artigianato italiano deve tornare a raccontarsi (bene)

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La storia di Filippo Berto si inserisce nel novero dei buoni racconti dell’artigianato italiano, in grado di superare il limite di risorse finanziarie limitate con la messa in produzione di un capitale simbolico e culturale che deriva da una tradizione di lungo periodo. In altre parole, gente che sa lavorare bene, e che colma il gap di risorse con il genius loci. L’archivio della Generatività Italiana ha diverse altre storie con questa struttura in seno.

Fa sempre piacere sentirsele raccontare. Ma questa storia di tappezzieri brianzoli ci dice qualcosa di più sull’artigianato del terzo millennio: ci dice dell’importanza dello storytelling.Berto non mobilita la rete solo come canale di distribuzione alternativo ai circuiti della grande distribuzione, già saturati dai competitor. Fa anche questo, certamente, e lo fa con intelligenza e sagacia tattica. Ma soprattutto usa la rete come spazio per elaborare un racconto di sé. E sapersi raccontare è uno skill che l’artigianato italiano spesso non è capace di attivare. Un po’ per disattenzione, un po’ per aver mantenuto un focus pressoché unico sul lavoro e sul prodotto (che per tanti anni si è voluto “parlasse da sé”).

E tuttavia, oggi, lo storytelling è divenuto risorsa non solo accessoria, non un plus per quei marchi che superano una certa soglia di affermazione; è diventata invece una risorsa fondamentale per esistere su un mercato che è necessariamente internazionale.Si tratta allora di raccontare se stessi in un modo e tramite linguaggi che da un lato risultino comprensibili e efficaci in contesti culturali diversi; e dall’altro, che risuonino con una narrazione di “italianità” che è andata costruendosi nei decenni. Numerosi sono stati i fallimenti in questo senso rappresentati da operazioni “dall’alto”, concepite e gestite a livello istituzionale con risultati fuori tempo massimo o disastrosamente inefficaci, autentici boomerang rispetto alla narrazione dell’Italia all’estero.

Il fatto è che forse non abbiamo bisogno di grandi portali web sull’Italia (rispetto ai quali, comunque, risulta difficile immaginare utenti), così come ho diversi dubbi sulla capacità dei musei dell’artigianato di farsi promotori di storie efficaci del territorio.

Credo abbiamo invece bisogno di una miriade di narrazioni dal basso come quella di Berto, fatte con la stessa intelligenza, creatività e palpabile entusiasmo che sono riservate ai prodotti. Berto usa intelligentemente il web e i social per raccontare non soltanto il suo prodotto, ma anche e soprattutto le persone che vi sono dietro, e le attività che queste persone portano avanti. La capacità di Berto di raccontarsi è già evidente ascoltando le sue parole; in tre minuti ci porta prima a casa della sua famiglia, facendoci respirare la stoffa, la colla e il legno, e poi ci scaraventa sulla scena internazionale, portandoci in giro per il mondo facendoci entusiasmare per la tappezzeria, una disciplina che probabilmente mai avremmo pensato lontanamente emozionante.

Quei tre minuti si chiudono lasciandoci la voglia di essere anche noi un po’ tappezzieri, o perlomeno di saperne di più. Le buone storie sono porte su mondi in cui vorremmo abitare; e siccome non possiamo, di fatto, darci tutti alla tappezzeria per esplorarlo, abitare quei mondi per molti di noi passa dall’acquistare dei prodotti. Vogliamo sentirci parte di quelle storie, e il mercato ce ne da una (limitata) possibilità. Quando queste narrazioni sono nobili, ossia si fondano su valori costruttivi, il nostro atto di consumo incorpora quindi anche una dimensione di crescita personale.

Girando per il mondo si capisce bene che il mondo è affamato di narrazioni sull’Italia – ossia, il mondo ha voglia di abitare nel mondo offerto dalle sue narrazioni. Un modo che, ovviamente, non coincide con il Paese reale, e che tuttavia ne distilla le caratteristiche più desiderabili: il gusto per il bello, l’inventiva, la capacità di trasformazione, l’attenzione per l’esperienza sensoriale. In questo senso la “tradizione” diventa importante, come bacino dove riconoscere questi depositi, dove ancorare le storie – non tanto come immobile e calcificato riferimento (inventato) contro cui misurare quello che non ci piace del contemporaneo. Non è che si stesse meglio quando c’era il tornio a pedale invece delle macchine CNC, ma dobbiamo raccontare di come l’artigianato italiano abbia imparato a tirare fuori cose incredibili da una macchina come il tornio a pedale, e che da lì è venuta tutta un’industria della meccanica di precisione, ad esempio, che ha tuttora grande mercato nel mondo. Ci piacerebbe sentire storie sul tornio a pedale, ma evidentemente pochi le sanno raccontare.

In Cina, laboratorio delle nuove pratiche di consumo (con le sue molteplici “classi medie” emergenti), i centri commerciali di alta gamma sono pieni di negozi di abbigliamento con marchi dai nomi italianeggianti. Io stesso ne ho visitato diversi stabilimenti. Si tratta di aziende che hanno proprietà interamente asiatiche, ma brand che suonano italiani, e la cui intera immagine è costruita con materiali che fanno riferimento al nostro paese.

Non si tratta, si badi, della questione annosa delle repliche scadenti; parliamo di prodotti di alta qualità e prezzo considerevole, che guadagnano un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza attingendo alla macro-narrazione di un Paese che è stata faticosamente messa insieme da decenni di piccoli e grandi successi imprenditoriali. Idem per quanto riguarda i mobili. Esempi simili sono frequenti nel settore dell’alimentazione, soprattutto negli Stati Uniti ma, di nuovo, anche in tutta l’Asia emergente.

Ecco, a mio avviso il caso di Berto ci racconta che, insieme a buoni prodotti, è necessario produrre buone storie; non soltanto per sé e per garantirsi un vantaggio rispetto ai propri competitor (obiettivo sacrosanto, peraltro), ma anche per depositare un altro pezzo in questa macro-narrazione dell’Italia che è un bene comune. E per insegnare agli altri come farlo: Berto non mobilita grandi mezzi, ma si muove con strumenti e linguaggi a disposizione di tutti e a costo bassissimo o quasi nullo.In questo senso, anche raccontarsi bene significa prendersi cura degli altri; anche raccontarsi bene rappresenta un atto generativo.