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Valorizzazione: quale pubblico, quale privato?

di Ilde Rizzo

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In tutti i paesi il settore pubblico sostiene la cultura, qualunque sia l’accezione considerata (patrimonio storico-artistico, arti visive, spettacoli dal vivo, industrie culturali e creative) e il risultato dell’azione pubblica dipende da chi fa cosa, perché e come nelle diverse circostanze.

Lo spazio limitato di questo contributo non consente di approfondire un tema così vasto; pertanto, mi limiterò a richiamare alcuni fra i numerosi problemi – peraltro ampiamente discussi nel dibattito scientifico così come sui mezzi di comunicazione – relativi al modo in cui il ruolo dell’operatore pubblico è concepito e concretamente declinato nel settore dei musei e del patrimonio culturale nel nostro paese.

In termini molto schematici, è possibile confrontare una visione statica, prevalentemente orientata a tutelare il patrimonio culturale, in ragione esclusivamente del suo valore storico-artistico o archeologico, e una visione dinamica che ne sottolinea il potenziale per promuovere uno sviluppo economico sostenibile, stimolare la creatività e generare rilevanti benefici diretti e indiretti in termini educativi, di promozione dell’identità e della coesione sociale e di miglioramento della qualità della vita. Con il rischio di eccessiva semplificazione si può dire che alla base c’è una diversa consapevolezza del rapporto tra le varie componenti culturali e di come, considerati i vincoli finanziari stringenti, sia possibile contemperare obiettivi diversi nell’allocazione delle risorse.

Per esempio, quanto più elevata è l’enfasi posta sulla tutela tout court tanto minore è probabile che sia l’attenzione rivolta alla comunicazione e alla fruizione del patrimonio, alla promozione della creatività nelle sue più diverse espressioni, percepite come una “distrazione” rispetto alle esigenze prioritarie della conservazione del passato. In questo senso, l’esperienza italiana, il mancato riconoscimento a livello istituzionale della unitarietà della cultura e della complementarietà delle sue diverse espressioni creative, quasi paradossalmente sembrerebbe indicare che la straordinaria opportunità rappresentata dalla ricchezza del patrimonio culturale rischia di costituire un vincolo alla sua effettiva capacità di produrre cultura.

Alla mancanza di una visione di insieme da un punto di vista concettuale corrisponde, da un punto di vista istituzionale, l’assenza di una cabina di regia unitaria per la promozione delle industrie culturali, delle quali patrimonio, arti visive e spettacolo costituiscono il core e un indispensabile riferimento. La separatezza è ancora più marcata in Sicilia dove le competenze in materia di spettacolo sono separate anche da quelle relative al patrimonio culturale. In sostanza, politiche culturali effettivamente orientate a promuovere lo sviluppo economico e sociale richiederebbero strategie di intervento basate su una nozione ampia di cultura.Rimanendo nell’ambito più specifico del patrimonio culturale e dei musei, mi sembra che un ragionamento sulla loro valorizzazione e sul ruolo di risorsa per lo sviluppo sostenibile richieda di fare chiarezza su alcuni aspetti critici.

L’autonomia aiuterebbe le istituzioni culturali a rinnovare le proprie strategie per soddisfare la domanda e a riproporre in modo nuovo il rapporto con il pubblico, ampliando le forme di interazione con la società e incoraggiando la partecipazione attiva dei diversi ‘portatori di interesse’.

A questo fine, va affrontato con decisione il superamento dei problemi informativi oggi esistenti: le norme in materia di trasparenza impongono obblighi precisi di pubblicazione di dati e informazioni. Ma, andando al di là della logica dell’adempimento, è necessario che per qualunque istituzione culturale che utilizzi denaro pubblico siano rese accessibili informazioni relative alla missione istituzionale, agli obiettivi assegnati, alle diverse attività svolte, agli elementi essenziali della gestione, secondo un modello comune che renda possibile per l’opinione pubblica, così come per i soggetti finanziatori, conoscere e valutare i risultati conseguiti, anche in una prospettiva comparata.Il controllo diffuso può certamente costituire una componente significativa di un sistema di incentivi efficace.

Muovendosi in questa prospettiva, si svuota di contenuto la sterile contrapposizione, spesso ideologica, tra “pubblico” e “privato” nella gestione delle istituzioni culturali perché appare con tutta evidenza che quello che rileva non è certo l’etichetta “pubblico” o “privato” quanto il sistema di incentivi prevalente in ciascun contesto e la sua capacità di orientare le scelte dell’istituzione interessata, pubblica o privata che sia, verso la soddisfazione degli interessi della società.

Comunque, non si può sottovalutare il contributo che la produzione privata di servizi culturali può generare in termini di differenziazione e di innovazione, anche grazie alla maggiore flessibilità che caratterizza questo tipo di offerta rispetto a quella pubblica, per esempio nella possibilità di avvalersi di risorse umane con profili professionali innovativi e multidisciplinari, idonei a rispondere ad una domanda variegata e in evoluzione. Analogo ragionamento vale per affrontare il dibattito “accentramento” / “decentramento”: o “statale”/”locale”; l’esperienza siciliana, ‘laboratorio’ di federalismo, in ragione della competenza esclusiva della regione in materia di beni culturali, dimostra, tra l’altro, che il livello regionale può essere altrettanto centralizzato e burocratizzato e non essere necessariamente più capace di rispondere alla domanda se il sistema degli incentivi non è adeguatamente disegnato. In sostanza, per soddisfare la necessità di trasformazione del sistema di organizzazione e gestione delle istituzioni culturali italiane non esiste “la” ricetta pronta per l’uso. Il cambiamento, attraverso l’affermazione del binomio autonomia e responsabilità, può essere efficacemente realizzato mettendo a fattor comune e valorizzando tutte le risorse – umane, finanziarie, culturali – variamente disponibili nei diversi contesti locali.

Istituzioni culturali autonome e responsabili sono, del resto, una premessa necessaria per affrontare due questioni rilevanti per la valorizzazione del patrimonio culturale: la cronica scarsa partecipazione privata a supporto delle istituzioni culturali e l’inadeguata promozione del turismo culturale.

Per quanto riguarda il primo profilo, la logica del fundraising richiede istituzioni dinamiche e responsabili, interessate a comunicare i propri obiettivi, la propria capacità di generare valore culturale e sociale e capaci di una costante attenzione nei confronti delle diverse categorie di fruitori. Non è casuale che nel mondo anglosassone, dove in linea di principio queste condizioni si realizzano, il sostegno da parte dei cittadini sia molto diffuso sia in termini finanziari che, ove possibile, anche con lavoro volontario. Naturalmente, ben diverso è il rapporto cittadini-istituzioni culturali in un sistema tendenzialmente centralizzato e burocratico come quello italiano. Mutatis mutandis, analoghe considerazioni valgono nei confronti di sponsor e mecenati. Non c’è, quindi, da meravigliarsi se nel nostro paese il sostegno privato sia molto limitato. Questo fenomeno non può essere imputato solo alle caratteristiche del sistema di agevolazioni fiscali ma anche, e forse principalmente, alla diffusa autoreferenzialità delle istituzioni culturali prima richiamata, a causa della quale il sostegno alla cultura non è percepito come un valore socialmente rilevante e condiviso.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, è utile sottolineare che la consistenza del patrimonio culturale può essere considerata solo una condizione necessaria ma non sufficiente per promuovere lo sviluppo locale attraverso la leva del turismo culturale, da molti ritenuto strumento efficace per una crescita sostenibile. Il luogo comune che basti aprire un museo o restaurare un edificio di rilevanza storico-artistica per attrarre visitatori e generare ricchezza è spesso un alibi per giustificare interventi pubblici, anche di considerevoli dimensioni, che, invece, si configurano più come scelte politiche per l’acquisizione del consenso, che come investimenti destinati a produrre benefici di medio e lungo termine. Del resto, alcuni studi condotti recentemente in Sicilia mostrano come ledestinazioni culturali non sfuggano al fenomeno della stagionalità e che la presenza di siti Unesco non contribuisca a migliorare la competitività del settore turistico. In sostanza, il turismo culturale può costituire un fattore importante di sviluppo locale ma non può essere considerato un dato e, anzi, richiede adeguate strategie e processi decisionali che coinvolgano i diversi attori rilevanti.

E’ ampiamente riconosciuto che il turista culturale è alla ricerca di “esperienze culturali” che non possono essere soddisfatte soltanto dalla visita a un monumento o a un sito. La competitività di un territorio, infatti, si misura anche in ragione della diversificazione dell’offerta culturale che è in grado di esprimere e, pertanto, richiede istituzioni culturali pubbliche dinamiche e propositive, diverse da quelle attualmente esistenti, e la partecipazione attiva di tutti gli attori –pubblici, privati e non profit – rilevanti nel territorio.