Siamo liberi se possiamo fare quello che ci pare, ci dicono. Solo ciò che è scelto è espressione di libertà. Ma è davvero così? Quante volte le nostre scelte sono agìte dalle nostre paure, dalle abitudini, dall’imitazione, persino dai traumi che ci hanno segnato! Pensiamo poi a quanto della nostra vita è ‘non scelto’, a cominciare dalla famiglia, dal luogo, dal tempo in cui siamo nati. Allora non possiamo essere liberi? Piuttosto, è questa idea di libertà che chiede di essere ripensata: non come decisione, individuale, nell’istante, ma come cammino, con altri, nel tempo.

La libertà ha a che fare non solo con la scelta ma anche e soprattutto con la responsabilità e la promessa, che costruiscono legame nel tempo: ogni nostra scelta va sempre rinnovata, perché nel tempo non siamo più gli stessi che eravamo al momento della scelta che ci ha vincolato.

La sfida creativa alla nostra libertà, ma anche alla nostra immaginazione e alla nostra fantasia, è quella di rinnovare questa promessa. E gli altri, in questo, sono fondamentali perché sono in qualche modo, come scriveva Ricoeur, i custodi delle nostre promesse, ci aiutano a mantenerle. Per questo, per esempio, il matrimonio non è solo un fatto privato, ma è una scelta che coinvolge la comunità. E le relazioni in cui siamo inseriti ci sostengono, quando inevitabilmente le crisi si manifestano. È sano che ci siano le crisi, che sono occasioni per rigenerarsi. Sono salutari perché degno che ci facciamo delle domande, se ci lasciamo provocare dal mondo. Non dobbiamo vergognarci delle crisi: dobbiamo coglierle come delle opportunità, e gli altri ci aiutano in questo. Quindi non è vero che l’altro può essere solo uno strumento o un ostacolo.

L’altro è chi mi libera dalla prigione di me stesso e mi aiuta a essere responsabile e a tenere fede alle mia promesse: perché senza la promessa il tempo non dura, senza la promessa il tempo è una collezione di istanti. La promessa, come ha scritto Hannah Arendt, salva le nostre vite dalla ‘futilità’, dalla liquefazione di tutto, che è una condizione di precarietà in cui non possiamo agire con libertà; solo assecondare la corrente.

Siamo noi che diamo unità al tempo, che lo facciamo durare. La nostra responsabilità è grandissima nel tenere insieme non soltanto gli spazi, non solo le relazioni, ma anche la durata. Raccogliere l’eredità, consegnarla, mantenere le nostre promesse.

Quali sono le antropologie che invece la contemporaneità ci propone? L’individualismo ha tante facce. La più potente è l’ideologia del self made man, dell’uomo ‘che si fa da solo’. È una menzogna grandissima, una mistificazione perché nessuno di noi si è fatto da solo: tutti siamo nati da una madre, è una verità esperienziale, non ideologica. Il fatto che abbiamo un ombelico in mezzo alla pancia ci ricorda che veniamo da qualcun altro. Questo buco ci dice che noi siamo mancanza, siamo legame, prima ancora che individui. Individui perché prima siamo stati accolti da qualcuno, perché veniamo da una relazione che ci precede, che dice di un tempo prima di noi. La contemporaneità ha ribaltato questa prospettiva e ha dichiarato: “La relazione è un prodotto dell’individuo. L’Io costruisce relazioni”. Al contrario. La relazione è condizione dell’individuo: io esisto come individuo perché vengo da una relazione.

C’è una scultura, che rende icasticamente la contraddizione dell’uomo che ‘si fa da solo’. È di un’artista irlandese contemporanea, Bobbie Carlyle, e si intitola proprio Self made man. L’opera raffigura un uomo fatto a metà che si scolpisce da solo, emergendo da un blocco di materia informe. Ma dove ha preso il martello? Dove ha preso la materia da cui si sta plasmando? Qualcuno deve avergli passato gli strumenti e tirato fuori questa materia. Se si sta facendo da solo è perché qualcuno lo ha messo in condizione di poterlo fare. Questo paradosso iconico ci dice che il mito del self made man è una mistificazione, ma soprattutto che è disastroso per le relazioni: perché insinua che ci dobbiamo vergognare se dipendiamo da qualcun altro, dato che l’ideale è non dipendere da nessuno, non aver bisogno di nessuno. Questo è triste. Invece riconoscere che siamo dei nodi di interdipendenze, che quello che siamo lo abbiamo ricevuto da altri, che ogni persona che abbiamo incontrato ha lasciato una traccia e che noi siamo anche l’insieme di queste tracce è qualcosa che ci fa sentire grati. E la gratitudine è una fonte di energia, nutre il legame sociale e la responsabilità. Invece l’ossessione dell’autonomia taglia il legame sociale, lo logora. Ci fa cadere in un narcisismo in cui continuiamo a guardarci negli specchi: oggi non più nello specchio d’acqua di Narciso, ma negli specchi dei nostri dispositivi.

Proporre un’antropologia relazionale piuttosto che un’antropologia individualistica è una sfida culturale cruciale oggi. E il momento è propizio perché le tristezze di una antropologia radicalmente individualista sono sotto i nostri occhi. Un’antropologia relazionale semplicemente pensa che relazione e individuo non siano in opposizione, ma si implichino a vicenda. È nell’intreccio unico delle nostre relazioni, quelle che ci sono date e quelle che sappiamo nutrire nel tempo, che la nostra individualità, unica e irripetibile, prende forma e cresce.

La persona vive sempre in relazione. Noi possiamo rimuovere le relazioni, possiamo separarci dai nostri mariti o dalle nostre mogli, ma restiamo sposati; e possiamo non parlare più ai nostri figli, ma restiamo sempre i loro genitori: questo legame originario non si cancella con un gesto di volontà. Lo possiamo rimuovere, ma ritorna, ritorna in forma rimossa.

‘Mai senza l’altro’, scriveva Michel de Certeau. L’incontro non ci limita; al contrario ci allarga, ci regala opportunità nuove.

Questo è il contrario dell’autonomia, il cui principio è “io non mi lego a nessuno, io non ho bisogno di nessuno”. Invece tutto è connesso, tutti siamo legati, tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri. E questo da sapore alla vita e la rende bella.