Nel suo intenso incontro con i lavoratori dell’Ilva di Genova, papa Francesco ha ricordato che il lavoro è e rimane una priorità della vita personale e collettiva. Una verità tanto semplice eppure così platealmente negata. Nel suo discorso, però, Francesco si è spinto un passo oltre: e, rivolgendosi insieme a imprenditori e operai, ha tracciato i lineamenti di un’economia che, ponendo al centro l’opera umana, torni a essere più giusta. E, aggiungiamo noi, anche più produttiva.

Rivolgendosi agli operai Bergoglio ha detto che il lavoro comincia col «lavorare bene, per dignità e per onore». La lotta all’alienazione comincia dentro di noi: la dignità del proprio lavoro — così frequentemente calpestata oggi — si radica nel sapere dare valore a ciò che si fa e a come lo si fa. Cedere su questo punto è il primo passo per consegnarsi nelle mani degli sfruttatori.

Ma certo, la dignità del lavoro non dipende solo dal lavoratore. Ecco allora il profilo dell’imprenditore secondo papa Bergoglio: «Una persona che lavora accanto ai suoi operai, che li conosce, che ne condivide le gioie e le fatiche. Consapevole dell’importanza del lavoro per la vita di ciascuno, fa di tutto per evitare anche solo un licenziamento, facendosi venire buone idee per evitare di licenziare». Su questa linea, Francesco non si è tirato indietro, arrivando a dire ciò che da troppo tempo abbiamo smesso di gridare: e cioè che quando gli imprenditori si trasformano in speculatori l’economia si ammala. E per sostenere il suo punto di vista, papa Francesco ha citato un liberale come Luigi Einaudi: «Milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante quello che si fa per ostacolarli. Costituiscono una molla di progresso potente. Ci sono imprenditori che investono ingenti capitali ottenendo utili più modesti di quelli che potrebbero ottenere con la speculazione». Non c’è buona economia, ha concluso Bergoglio, senza buoni imprenditori.

I «realisti» obietteranno che un conto sono i «bei pensieri» di un Papa, un conto la dura realtà dove tra impresa e lavoro esiste solo il conflitto e dove la finanza continua a dettare legge. Ma siamo proprio sicuri che le cose stiano così? In una recente ricerca (La nuova borghesia produttiva, 2016) si è mostrato che il 25% delle medie imprese italiane — quelle che hanno successo e aumentato la loro quota sui mercati internazionali — seguono una strategia basata su tre pilastri: qualità della produzione; investimento nella manodopera e in relazioni industriali costruttive; attenzione al territorio e all’ambiente.

In Italia — ma il discorso vale anche altrove — la parte di economia che funziona adotta un modello non dissimile da quello indicato dal Papa. Dove al centro non c’è lo sfruttamento, ma il rispetto e la collaborazione; non la speculazione, ma la produzione integrale di qualità e valore. Il problema è che sono ancora troppi gli imprenditori che pensano di fare i soldi sfruttando il lavoro a basso costo o sognando facili guadagni finanziari; e troppi i lavoratori (e i sindacati) che non credono possibile vedere riconosciuto il proprio contributo personale in modo equo. Ma, soprattutto, il problema è che a impedire la costruzione di un’economia più giusta e più produttiva è l’infrastruttura istituzionale: ciò che manca è una burocrazia con regole chiare e funzionali; una contrattazione moderna capace di cementare un’alleanza vera tra imprenditori e operai; una tassazione che premi il lavoro e gli investimenti; un sistema di regole che combatta il «feticcio della liquidità» che, come scriveva J.M. Keynes, alla fine finisce solo per distruggere ricchezza. Così, a dispetto di chi non crede che quella economica sia sempre una questione di «valore» — come Weber ci ha insegnato — il discorso del Papa va preso sul serio. Uscire dalla crisi significa infatti tornare a produrre valore insieme, attraverso una nuova alleanza tra impresa, lavoro e politica: non dunque «un reddito per tutti, ma un lavoro per tutti, perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti». La strada opposta a quella di chi propone la via facile, ma insostenibile e fondamentalmente sbagliata, dell’assistenzialismo.

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