A dispetto dei proclami primomaggieschi, al nostro lavoro riserviamo una sterile immaturità. Attorno al lavoro aleggia un sentire avvilito, senescente di decadenza civile e spirituale, privo di nerbo e senza energia. ‘Mettere il lavoro al centro’ è il mantra politico sindacale. Ma la questione non è dove, ma quale lavoro rendere protagonista della vita economica e sociale. Eppure il nostro essere fondati sul lavoro – non sul prodotto e tantomeno sul capitale – dovrebbe renderci avvertiti, pronti a cogliere il messaggio davvero rivoluzionario contenuto nel nostro modo di lavorare, nel lavoro italiano e mediterraneo, nel lavoro sud europeo: possiamo costruire una nuova economia fondandola sul rapporto uomo-lavoro, sulla funzione civilizzatrice del lavoro.

Il processo che vede nel lavoro il fondamento della vita personale e sociale, che subordina l’appartenenza alla comunità nazionale al dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta un’attività che concorra al progresso materiale e spirituale della società, come recita l’art. 4 della Costituzione, viene da lontano. Prende avvio secoli fa e caratterizza come un fiume carsico l’intera nostra storia patria. Il Monachesimo, l’Umanesimo, il Rinascimento, l’Illuminismo italiano, il Risorgimento, l’impresa generativa di Adriano Olivetti sono momenti che hanno il loro filo rosso in un certo modo di intendere il lavoro, un modo antitetico a quello sostenuto dal mainstream economicista di stampo anglosassone, e che oggi si rivela di straordinaria modernità. Il lavoro italiano, sviluppandosi attorno a precisi valori etici, estetici, civili ha nei secoli assunto il carattere di arte di vivere calata nelle dinamiche produttive. Che cosa produce da moltissimo tempo il lavoro italiano, in Italia e in giro per il mondo? Non tanto e soltanto prodotti, ma attraverso di essi una proposta antropologica. Il modo di lavorare italico mediterraneo genera buona vita produttiva, vale a dire saggia intelligenza, alimentata dalla volontà, indirizzata dal senso morale e finalizzata al ben essere individuale e collettivo. Un tentativo apparentemente utopico o al più funambolico. Che invece, se si osa riconoscerlo e attualizzarlo, permette di superare l’irrigidimento categoriale e il pensiero dualistico che hanno favorito sterili veti ideologici e impedito l’evoluzione qualitativa del modello capitalistico e di mercato.

Il lavoro italiano e mediterraneo ha tracciato la via per raggiungere la qualità della vita non in opposizione alla tecnica o in alternativa al benessere, ma nonostante la tecnica e la ricchezza materiale. Un lavoro sostenibile, capace di imbrigliare i demoni produttivistici e l’insensatezza dell’apparato tecnico e tecnologico, senza demonizzare né la produttività né la tecnica.

Il modello di lavoro italiano che è andato maturando nei secoli contiene l’idea di un lavoro capace di coniugare il fare bene, l’efficacia e l’efficienza del fare, il fare il bene, l’impegno etico nella relazione con gli altri e con il mondo, lo stare bene, la pienezza e completezza di sé. Parlo di un lavoro vivente, capace di abbracciare la complessità e la pluridimensionalità della vita. La tradizione culturale italiana ha conservato la vocazione a incarnare il lavoro nella concretezza del vivere. È stata in grado di immettere nel lavoro umano gli elementi che fanno della vita umana ciò che essa è: ad esempio la plasticità, la complessità, la bellezza, il modificarsi nel corso del tempo, il dipanarsi in una storia, l’allargarsi in una dimensione sociale e politica senza trascurare quella privata.

La cultura italiana, quella vera e profonda, ha avuto l’intelligenza di sottrarre il lavoro alla ricerca di un’astratta e univoca essenza. Ne ha salvato la vita negando che esso avesse un’essenza, fosse la salvezza dell’anima o l’espressione mercificata delle leggi di mercato o la ribellione alla violenza capitalista. Ne ha evitato così la trasformazione in feticcio. Lo ha sottratto alle equivalenze banalizzanti. Restituire vita al lavoro ha significato aggirare le idealizzazioni che altrove lo hanno disincarnato, reso debole e fragile, prono all’anonimato seriale, appiattito su un economicismo che tutto spiana e omologa. Ha reso così il lavoro un fattore di incivilimento. Idea straordinaria, ben presente nella mente dei padri costituenti, che il sistema imprenditoriale italiano finora non è stato in grado di tradurre in originale cultura d’impresa e in caratterizzante modello organizzativo. Semplificando un po’ le cose, possiamo dire che le funzioni sociali che reggono una comunità sono riducibili a tre: politica, culturale ed economica. La prima è indispensabile per regolare i rapporti tra uomo e uomo; la seconda per definire i principi attraverso cui generare il senso di appartenenza dei singoli individui a una comunità; la terza per regolare i meccanismi di produzione, circolazione, consumo delle merci. Il grande problema – mai adeguatamente risolto dal pensiero socio-politico – è far interagire armonicamente le tre funzioni, evitando lo sterile prevalere dell’una sulle altre.

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