«Prof, come sarà la nuova maturità?». È stata questa la prima domanda dei miei studenti, nella prima ora di lezione in quinta. «Ci sarà la terza prova? I crediti verranno ricalcolati? E la tesina?». Domande inevitabili, alle quali ho dovuto rispondere — non senza imbarazzo — con il solito triste adagio: aspettiamo. Tutti sanno che quest’anno la maturità cambierà, ma nessuno sa esattamente come: chi ha costruito per tempo i propri obiettivi didattici sarà probabilmente costretto a rivederli alla luce delle direttive ministeriali. Come se non bastasse, l’assegnazione delle cattedre è incompleta, tante sono le classi scoperte e i colleghi in attesa. In molte città anche le aule sono insufficienti. Alcuni ragazzi, a Pistoia, a causa dell’inagibilità dei locali scolastici, stanno lottando per fare i turni pomeridiani pur di far partire l’anno. In una scuola di Napoli professori e alunni sono stati spediti al mare per permettere la rotazione delle classi, il cui numero è superiore alle aule. È una malattia endemica del Paese: non pensare alle cose «per tempo». Ma torniamo alla mia quinta.

Comincio con un appello lento, nome per nome. Guardo il loro volto abbronzato per coglierne piccole o grandi trasformazioni, e chiedo a ciascuno di raccontare «la cosa più felice» delle vacanze. Una sola. So dove voglio arrivare e ho bisogno dei loro ricordi. Di solito i racconti felici, estivi e non solo, si collocano in due territori paralleli dell’anima. Il primo riguarda le scoperte personali relative ad attitudini e passioni, e quindi al futuro: «Ho passato due settimane in una scuola americana, affiancando le maestre nell’attività didattica», «Sono riuscito a fotografare Marte come non si riusciva da tempo, perché quest’estate era particolarmente visibile»… Il secondo ha a che fare con la condivisione: «Un viaggio a Londra con la mia migliore amica», «Una nottata di chiacchiere fino all’alba»… Tutto ciò che hanno detto era in linea con la parola che avrei definito in quella lezione: «maturo». Amo restaurare le parole con le crepe, prima che vadano in frantumi.

Sono però partito dalla parola «felicità», dicendo loro che è sinonimo di maturo. Non ci credevano. «Felix», in latino, indicava semplicemente l’albero che dà frutto (la radice è la stessa di fecondo): «arbor felix» era per il contadino l’albero che porta frutti buoni, pronti per essere imbanditi in tavola o usati per nuove seminagioni. L’albero felice è l’albero fertile, nutre e dà altre piante. La parola «felice» occupa la prima pagina dei libri di psicologia come motore della vita umana. E, a conti fatti, i due ambiti che consentono di definirci felici sono la costruzione di relazioni autentiche con gli altri e la realizzazione della proprie attitudini nella vita, non solo professionale. I due aspetti, in continua crescita se non si vuole che la vita si fermi e invecchi, sono proprio i due territori della «felicità» dei racconti estivi. Uno di loro mi ha chiesto quale fosse stata per me la cosa più felice, e ho raccontato i giorni trascorsi al mare con i miei familiari, riposando, chiacchierando, leggendo, scrivendo… Ero stato felice perché avevo tutto quello che serve ad esserlo: potevo tranquillamente prescindere da ciò che durante l’anno sembra imprescindibile: internet, tv, telefono… Amiamo la nostra condizione estiva perché ci permette di abitare proprio i due territori capaci di renderci felici, cioè fecondi: relazioni e vocazioni.

A questo punto era venuto il momento di passare al termine «maturo», perché l’albero felice dà frutti maturi, né acerbi né marci. La parola maturo ha una storia affascinante, ed è l’orizzonte che presento ai miei studenti per liberarli dall’ansia dell’esame e aiutarli a concentrarsi sull’essenziale che servirà ad affrontarlo, indipendentemente dal risultato. Maturo è imparentato con: mattutino, (do)mani, mese… parole derivanti da una radice che indicava il misurare e si utilizzava per le cose del grande misuratore: il tempo. Per questo maturo indica propriamente: «ciò che arriva a tempo, di buon’ora, e quindi a perfezione, a compimento, detto soprattutto di frutti o messi, nel giusto accordo con le stagioni».

La storia della parola ci obbliga a spostare la nostra attenzione dalla statica (maturità) alla dinamica vitale (maturazione). Chi è maturo? Colui che arriva per tempo, quindi la maturazione non è compatibile con la pigrizia o con la fretta: i frutti maturano nella stagione giusta e nelle precedenti si preparano; maturo è colui che arriva a compimento, quindi bisogna aver chiaro quali aspetti della propria persona occorre curare perché diano il frutto atteso; maturo è colui che sa misurare i fenomeni, ed è quindi capace di affrontare la realtà a partire da una presa di posizione «radicata» — senza radicalismo — sul mondo, per non lasciarsi trasportare dai venti emotivi e nei luoghi comuni. Maturo, insomma, è chi misura e si misura con la realtà. Per questo ho ripreso le parole con cui Enrico V, nell’omonima opera shakespeariana, incita i soldati. Le condizioni sono avverse, i nemici molto più numerosi. Il re Enrico vince la loro paura ribadendo che non vuole un solo uomo in più, perché la vittoria è da un’altra parte: «Quando l’anima è pronta, lo sono anche le cose». Per me è il motto per l’anno della maturazione e della maturità, l’opposto di chi ci dice di affrontare le cose solo quando siamo sicuri di poter avere successo: «quando le cose sono pronte allora l’anima lo sarà». È questo l’alibi che imprigiona il senso dell’avventura proprio del giovane, la cui maturazione può avvenire solo con il coraggio di uscire da se stesso e rischiare la vita, affrontando il vuoto che ogni scelta comporta: «avventura» viene da ad-ventura, le cose che accadranno, per le nostre scelte, senza che possiamo controllarne l’esito. Abbiamo barattato l’avventura con l’ossessione per la «sicurezza», fonte di paura che porta a rifugiarsi in copioni dettati da altri, pur di non fallire. Così il successo (risultato) ha sostituito il processo (vita): ci si impegna per qualcosa se è facile, comodo o garantito. Esattamente il contrario di ciò che fa il seme per maturare, cioè uscire da sé, per dare un giorno i frutti scritti nel suo stesso innato dinamismo.

Il corpo e il cervello di un adolescente condividono questo slancio, che si esaurisce attorno ai 20 anni. L’espansione del cervello adolescenziale è simile a quella di un bambino da 0 a 6 anni, una spugna di esperienze ma con la differenza degli effetti reali delle proprie azioni, non più controllate dai genitori. La natura, che non fa nulla a caso, ha dotato l’adolescente di tale energia per farlo uscire dall’inerzia infantile. La scelta di lasciare casa, inaugurare un lavoro, costruire un proprio nucleo familiare, è frutto della spinta naturale a dar vita al nuovo, vincendo la seduzione della sicurezza che preferisce im-plorare (piangere perché la realtà non ci soddisfa) a es-plorare (misurarsi con la realtà facendo scelte coraggiose). Maturo è chi lascia casa per inaugurarne una propria. Imbandisce i suoi doni per altri e dà nuovi frutti in nuove generazioni. Può farlo se ha colto, nella stagione di preparazione, quale novità è venuto a introdurre nel mondo, sviluppando le risorse che ha già. La maturità è uno degli ultimi riti di passaggio rimasti a segnalare la necessità di una svolta vitale. Gli educatori sono quindi giardinieri che mettono il seme in condizione di fruttificare, e poi potano, non per mortificare, ma per concentrare la linfa, che un giorno renderà «felix» l’albero: fecondo. Tante crisi di felicità sono crisi di infecondità esistenziale.

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